Capita spesso, nella vita, di assistere al contrasto tra la grandezza dell’animo umano e la sua miseria. Capita di constatarlo anche dentro se stessi, nel confronto col proprio inquilino negativo, con quel peggio di sé che sta sempre in agguato e pur non pagando l’affitto si appropria del corpo, dei luoghi e delle parole e ci fa combinare esattamente ciò che lucidamente non si vorrebbe fare, ma poi si fa. Miseria e nobiltà convivono in modo inestricabile, al punto da far apparire ipocrita chi si rappresenta tutto d’un pezzo. Non è vero: siamo un mosaico con molte tessere cangianti, impazzite, che spesso è difficilissimo tenere a bada.
Oggi i giornali sono pieni di vanità e di censure (queste, ormai, ordinarie) con tanti che vanno dietro a un somaro che discetta di pecore e a un ciuco coloniale immemore che non ricorda neanche ciò che ha detto qualche giorno fa.
Al centro, comunque, la notizia della tragedia di una coppia di anziani, lei con demenza senile, lui affetto da un tumore. Lui ha ucciso lei e poi si è suicidato.
In un Paese come l’Italia dove ci si è apparentemente divisi sull’aborto, sull’inizio della vita, dove persone senza arte né parte, rispetto al senso della vita, testano le reali volontà di adozione delle coppie proponendo bambini cerebrolesi o comunque non autonomi, dove assistenti sociali spesso d’assalto e di salotto costruiscono processi di sottrazione dei figli ai genitori naturali con una facilità feroce indegna, tutta l’attenzione è verso l’inizio della vita e verso l’infanzia (spesso tragico strumento di visioni ideologiche dell’uomo e dell’umanità), ma non verso la fine, o meglio, verso l’esercizio della libertà nel tramonto della vita.
Sono contrarissimo all’omicidio. Nessuno ne ha alcun diritto. La leggerezza con cui nelle tradizioni vendicative sarde si toglie la vita al rivale mi ha sempre spaventato e ho sempre ritenuto che sia stata proprio la leggerezza con cui per secoli si è educato il ramo maschile delle famiglie a perseguire la vendetta nel sangue, a creare diaboliche giustificazioni, anche oggi, all’eliminazione dell’avversario.
Ho ammirato in silenzio non poche persone che colpite dalla violenza del male hanno rinunciato a rispondervi allo stesso modo. Sono persone intaccate, ferite nel profondo, irrimediabilmente irrisolte, eppure ammirevoli.
C’è un legame tra la leggerezza con cui si guarda alla morte altrui e la violenza con cui ci si confronta con gli avversari. Ed è proprio questa violenza che sta crescendo nelle parole, nei modi, nella sbrigatività con cui ci si rapporta ai vicini, con cui si interviene nelle riunioni, con cui si affrontano le piccole questioni quotidiane. Il tasso di violenza verbale è aumentato esponenzialmente in questi ultimi anni, parallelamente all’estetica del farsi valere. Il mondo del politically correct ha incipriato le apparenze di dialogo e reso ancor più feroci le realtà di confronto, proprio per la scelta del non dare il loro nome alle cose, di rifiutare il collegamento tra maleducazione e educazione al male, tra arroganza e violenza, tra prevaricazione e morte. L’unico modo per insegnare a rispettare la vita altrui è insegnare ad amare, arte ormai obliata a favore dell’eduzazione civica, cioè l’educazione alle regole. Amare è un’altra cosa, ma sarebbe lungo parlarne.
Sono contrario al suicidio, ma so di esserlo perché cristiano, non per consolidata convinzione personale. Anche perché considero pagana e masochista tutta la teologia e la letteratura cristiana che insegna l’offerta del dolore a Dio in espiazione dei peccati.
Il dio che ha bisogno ancora di sacrifici non è il dio dei cristiani. Non c’è una sola parola nei testi cristiani che inviti a credere che Dio mandi malattie o tragedie e che chieda penitenze e pene per placare la sua sete di giustizia. Il Vangelo è ricco di notizie di guarigioni e perdoni, di nuova vita e di speranza. Gesù non chiede mai niente di più che guardare, seguire, sperare. Non giudica e soccorre.
Nella tradizione cristiana correttamente intesa, liberata dall’ossessione del corpo propria di alcuni correnti monastiche, si trovano parole importanti per dare un senso al dolore e al male, e questo significato risiede nella certezza che i cristiani non sono di questo mondo come non lo è Gesù e che l’altro mondo verso cui si va è giusto e restituirà il centuplo.
I cristiani trovano un senso al presente sbagliato nella speranza del futuro giusto, reso tale da un fondamento amorevole.
Resta, ovviamente, tutto intatto il perché si debba venire alla vita in un mondo così complicato.
Tuttavia, detto tutto questo, io non sono per niente certo che un uomo non abbia la libertà e il diritto di considerare se le condizioni in cui vive siano ancora mediamente sostenibili e di decidere se porvi fine. Ovviamente, a questo punto, uno zelante catechista mi direbbe che è nel dolore che occorre avere fede e che la fede ha anche guarito tante persone. Giustissimo, ma è ancora da capire perché la porta della fede sia così stretta, perché per alcuni funzioni e per altri no e perché si debba tutti passare per quei momenti di disperazione per i quali è passato anche Gesù. Per quale motivo il tritacarne del mondo sia sempre in funzione e tutti ci si debba entrare, volenti o nolenti, è questione che si può spiegare solo dichiarandola irrisolvibile e gridando al cielo che è una solennissima porcata divina. Non accetto il ragionamento della volontà imperscrutabile di dio, delle sue predilezioni, del suo favore concesso a taluni e non ad altri, perché questo non sarebbe un dio ma un tiranno bizzoso.
Ma fin qui i ragionamenti sono dentro un perimetro religioso. Se li si sposta su un piano civile, le cose cambiano. Perché revocato il perimetro cristiano, il gesto del suicidio rientra nell’alveo dei diritti di libertà. Si ha voglia di dire che chi si suicida ha vissuto una solitudine non soccorsa e quindi un bisogno sociale non soddisfatto. Chi si suicida ha una solitudine non raggiungibile o un dolore così invincibile che l’unica libertà è dire basta. Bisogna essere consapevoli che non c’è alcuna perfetta organizzazione sociale che ci liberi dal buio che ti entra nelle ossa quando la tragedia del mondo ti prende irrimediabilmente un familiare, o ti consuma lentamente la carne, o ti perseguita la mente.
E la domanda diviene politica: perché, quando non ci resta che morire, non si può decidere il quando e il come?
Si dice che l’eutanasia non sia un diritto perché la vita non è di ciascuno di noi.
Benissimo, e allora bisogna affrontare in diritto il caso, molto comune, dei diritti del locatario quando il proprietario si disinteressa della sua proprietà.
So perfettamente che sono domande che strizzano il ventre e il cervello, ma sono anche domande rimosse, messe nel grande digestore della tragedia, evitate da quelli di cui Montale rideva, quelli che parlano come se non scorgessero la loro ombra a ricordar loro che pochezza essi siano (uno di questi trionfanti, pieno di gloria e sicumera, imperialmente levitante della propria aria intestinale, discetta oggi sui giornali).
Sono domande che non vengono poste neanche dinanzi a tragedie immani come quella raccontata oggi dai giornali e trattata come una notizia di cronaca, senza profondità, perché ragionare fa male o perché si ritiene che ragionare non interessi nessuno. Infatti, si vede.
Molto bello l’articolo. Non so, personalmente, dare risposte. La Chiesa ormai accoglie nel giorno del commiato i suicidi. Questo significa qualcosa.
Ho comprensione per chi agisce contro di sé. Ma la vita rinizia, un giorno oscuro non è la fine. C’è qualcosa dentro di me che guarda con orrore al suicidio. Non so cosa sia, non saprei nominarlo.
Il tema del fine vita credo che ormai debba essere completamente sdoganato, liberandolo da pregiudizi morali, religiosi e bassi calcoli politici. Un’analisi molto bella, lucida, che condivido in pieno.Aggiungo il tema del potenziamento delle strutture sanitarie per l’accompagnamento verso il fine vita e un supporto psicologico per le famiglie che passano attraverso questo dramma. Aprire un piu’ ampio confronto pubblico su questi temi lo considero fondamentale.
Il dolore, la sofferenza, il pensiero del suicidio fanno parte della vita… e ciascuno di noi, in modi e tempi diversi, prima o poi ci fa i conti.
Ma solo chi , come te, è profondamente sensibile riesce a parlare (e scrivere) del ‘male di vivere’ con delicatezza e comprensione.
Grazie, per aver condiviso questa riflessione…..
Sa vida est totu a gherra (cun ‘feridos’, ‘istropiados’ e ‘mortos’) e su cristianu est su chi est (e carchi cosa ndhe narat su chi si costuma(ia)t a nàrrere de maridu e muzere: “Duos si che mànigant una soma de sale – pro cundhimentu! – istendhe paris e chentza si connòschere”) e nois a zudigare “gàrrigos de resone”! Ma est sa pesa zusta solu cussa divina, chi nois no manizamus.
Però tocat a coltivare un’iscopu e un’ideale prus in artu e prus adhae de sa pessone (nostra e anzena) e si podet cumprèndhere de prus antzianos màrtures, ma prus pagu zòvanos.
Argomento piu che mai spinoso. Articolo veramente bello e che pone innumerevoli punti interrogativi. Anche io sono contrario all’uccisione di un altra persona da parte di chiunque e condivido in toto l’analisi fatta su quel pezzo di cultura sarda spesso fin troppo enfatizzata. . Sono anche contrario alla pena di morte. Perché neanche lo stato puo avere un tale diritto ed i cittadini non dovrebbero concederglielo. Le aberrazioni e gli errori sono storicamente maggiori dei presunti vantaggi che la pena di morte potrebbe portare. Allo stesso tempo il diritto a togliersi la vita, aldilà delle convinzioni religiose, mi fa paura se legislativamente disciplinato. Mi fanno paura gli abusi. I possibili errori. Il caso non disciplinato rimesso alla volonta di chi sa chi. Non so. non credo spetti all’apparato statale intervenire su tali scelte. Oltre al fatto che in ogni caso inevitabilmente si costringerebbero i medici, molti dei quali non avrebbero problemi, ad andare contro a quella che dovrebbe essere la loro missione. Salvare vite sempre e comunque. Ma la sostanza è che una regolamentazione di questioni quali quelle poste porta o a eccessiva superficialità o comunque a possibili errori e incomprensioni magari lasciate all’interpretazione del magistrato di turno. Che paura.
Nei giorni scorsi è stata rievocata una vicenda delicata e toccante accaduta a Sassari 45 anni fa: vicenda in cui entra anche il suicidio e che ormai ricordavano solo i più grandi di età. Da questa vicenda i Cugini di campagna trassero una canzone famosa.
Credo che di fronte a fatti enormi come questi non c’è convinzione che tenga: lo comprese anche un uomo di Chiesa sicuramente degno di ammirazione e rispetto.
https://www.lanuovasardegna.it/sassari/cronaca/2020/08/18/news/jole-ed-ettore-i-fidanzatini-sassaresi-pianti-dall-italia-intera-lei-muore-di-leucemia-lui-si-uccide-1.39206210