di Paolo Maninchedda
Considerate questa circostanza: è sempre più frequente che un sardo che vada all’estero abbia successo, abbia cioè fuori dalla sua terra il riconoscimento che in patria non ha avuto.
Uno studente di sociologia del primo anno, ma anche semplicemente un uomo con un po’ di buon senso, ne dedurrebbe che il problema è dato dal contesto sardo e dall’inesorabile logica della falce: l’erba in Sardegna deve essere regolata tutta alla stessa altezza, i fili che svettano devono essere decapitati. Incredibile, in questo senso, la solenne fesseria di questi giorni secondo cui occorre chiamare un manager italiano della sanità perché i sardi hanno creato il deficit sanitario. Se potessimo fare una seria storia del deficit in sanità, scopriremmo che ci sono stati sardi che hanno fatto buchi e sardi che hanno risanato i buchi. Scopriremmo pure che gli stessi che oggi invocano il Risolutore hanno concorso a decapitare i bravi e a promuovere gli spendaccioni. Faccio una domanda integrativa: quale è la società che non è mai riuscita a far funzionare a dovere il sistema informatico regionale della Sanità? È sarda o è una multinazionale dell’ICT? Quale sardo ha fatto arrivare la Inso a Nuoro con un contratto che l’Anac ha disintegrato? Quale sardo ha fatto sbarcare in Sardegna il colosso Kinetika? È stato forse un sardo a scatenare le attenzioni della magistratura sulle società regionali dell’informatica e delle reti? Potrei continuare, ma non serve.
Continuiamo a seguire la crescita del bambino sardo tarato dalla falce.
Un sardo standard crescerà in questo ambiente con due sentimenti: o disprezzando i sardi e pensando che li si debba mandare tutti a Guantanamo per rieducarli alla normale diversità delle capacità delle persone o pensando che i sardi abbiano tutti la stessa altezza, che quella diffusa è l’altezza giusta e che chi è più alto è un’eccezione insopportabile e superba che deve togliersi di mezzo.
Da questa impostazione deriva la convinzione che i gradi cui possono ambire i sardi sono sempre quelli intermedi, quasi mai quelli apicali, se non dopo un lungo apprendistato che li abbia rieducati sul tema dell’altezza dell’erba e li abbia portati a considerare che è giusta la regolazione della falce ma che per un caso il loro seme è caduto in un campo diverso e quindi loro e solo loro possono ambire a qualche centimetro in più. Tutto questo ha anche conseguenze linguistiche: poiché le vocali sarde sono avvertite troppo chiuse e la metafonesi campidanese troppo volgare, sono anche diffusi i sardi che aprono e chiudono le vocali a membro di segugio convinti di svettare di qualche millimetro in più agli occhi dell’Accademia della Crusca.
La falce diseducativa è responsabile anche della natura del clientelismo sardo. Non parlo di quel clientelismo da mutuo soccorso che è diffuso a tutte le latitudini e che non è per niente solo sardo (anche in Lombardia chi ha bisogno di aiuto lo chiede a chi crede possa darglielo); parlo del clientelismo del potere, il clientelismo dei posti e dei sottoposti.
Il sardo tarato dalla falce diffida dei fili d’erba prossimi alla sua altezza e quindi potendo nominare qualcuno nomina i fili d’erba più bassi, che ovviamente diffamano quelli più alti. Negli ultimi anni la peggiore infamia in vista delle regolazione è aver fatto politica: chi ha fatto politica puzza, chi ha frequentato i salotti profuma. Non più l’altezza ma i fenormoni; non più la passione civile, ma l’incivile chiacchiera diffamatoria delle cenette intime.
Noi dobbiamo opporci a tutto questo. Noi dobbiamo investire in fiducia. Oggi la Nuova parla di autarchismo; autarchismo una cipolla! La Sardegna è sempre stata un Paese accogliente. Noi vogliamo e amiamo chi ci sceglie, da qualunque parte del mondo venga e qualunque lingua parli. Se godessimo di una piena sovranità, rivedremmo tutto, dai programmi scolastici al fisco, dai diritti civili ai diritti politici: diventeremmo il paese più libero e libertario del mondo, ben diverso dal Paese dogmatico e dunque ipocrita che è l’Italia. Noi vorremmo vedere nelle nostre università docenti cinesi, australiani, africani, mediorientali, inglesi (meglio scozzesi), americani e latino americani, russi, svedesi e anche islandesi. Ma detto tutto questo, non si possono allevare i nostri figli senza dar loro tutta la fiducia di cui hanno bisogno. Bisogna insegnare loro che Ulisse rappresenta anche noi, cioè l’assenza di limite alla nostra libertà e responsabilità. Chi nasce in un’isola ha già geograficamente il senso del limite. Se gli si ficca nel cuore un freno a mano dalla nascita, lo si rovina, lo si inibisce, lo si condanna. Se si sospetta di essere condannati da un destino ostile a una condizione di minorità, si educa alla paura, alla subordinazione, alla resa. I ragazzi vanno amati, non plagiati e costretti a diffidare di sé. Noi vogliamo costruire un Paese moderno perché amiamo le persone e la terra e odiamo la falce e le sue conseguenze.
magari fossimo autarchici! Saremmo una comunità comunque ospitale ma, finalmente, con la riconosciuta capacità di auto-regolarsi ed amministrarsi. Per ogni ulteriore considerazione, comunque, occorre attendere giustappunto qualche esercizio allorché saranno certificati conti aziendali e qualità delle prestazioni sanitarie. Soltanto elevati standard ed effettivo riordino dei conti potranno permettere all’elettore di riconoscere la bontà della scelta tecnica e organizzativa che, invece, attualmente, alimenta più d’una perplessità.