Ho un grande rispetto per Enrico Letta. Se fossi stato Primo Ministro della Repubblica della Sardegna, gli avrei chiesto di fare il ministro degli esteri, perché, a mio modesto avviso, questa è la sua vocazione naturale.
Ha la testa e i modi di un diplomatico di razza; circoscrive i problemi con la freddezza con cui lo fanno i grandi analisti internazionali. È un uomo che mi è sempre sembrato buono, naturalmente non portato al male, molto utile nelle mediazioni.
È l’ultimo nipote di Andreatta e tra Andreatta e Moro (il grande statista era l’unico in grado di zittire il grande economista) c’era questa differenza: Moro aveva sempre il dubbio di non aver capito bene né Dio né il mondo, Andreatta aveva sempre il dubbio che il suo interlocutore fosse scemo (o non avesse studiato).
Letta è assolutamente privo di presunzione, ma nella gestione del potere è settario, cioè realizza costantemente schemi egemonici, non crede ai soggetti pluralistici e federalistici perché li trova inadatti allo scontro. Un partito, per lui, deve essere una cosa facilmente identificabile, coesa, che si muove a memoria sul campo di battaglia. Una visione militare o, se si vuole, togliattiana più che gramsciana (parlo del Gramsci in carcere, che divenne tuttaltro che comunista; questa storia del pensiero di Gramsci custodito dal Pci è un equivoco che dura ancora nella testa di tanti).
Non a caso, il primo passo di Letta è egemonico. Il segretario si è inventato un escamotage per vedere se i gruppi parlamentari gli obbediscono e dunque ha detto loro: “Voglio due capigruppo donne”. In nome di che? In nome della parità di genere. Tutto vero? No, è una finzione.
Se Letta avesse avuto realmente a cuore la svolta femminile del suo partito, avrebbe dovuto dire, a chi gli offriva la segreteria: «No, non è il mio momento. È il momento di una donna». Magari sarebbe stata la volta della Serracchiani o della Madia, e invece no.
Le donne, dopo.
È come se Letta avesse varato l’abolizione della Lex Salica per i feudi, ma non per il trono.
Se l’inizio si vede dal mattino, non è un buon inizio, proprio perché propagandistico e non sostanziale. Vediamo il proseguo, ma dubito fortemente che Letta riuscirà a cogliere la malattia del Pd, che è il simmetrismo, cioè il definire la propria identità nel collocarsi all’opposto dell’avversario prescelto. Al cambiare dell’avversario, si rimane spiazzati, esattamente come si trova oggi il Partito Democratico.
Quando una cosa è sbagliata, si può correggere; tenendo però a mente una domanda,
….ne vale la pena?
Il lavoro per rimettere le cose in una qualche strada (poi giusta o sbagliata si vedrà) è fattibile a costi e tempi umani?
….se la risposta è affermativa, bene, si procede;
…altrimenti si butta giù tutto e si ricomincia da capo!
Ha senso oggi tenere in piedi questa baracca cattocomunista purulenta e traballante;
Dall’esterno sembra essere il covo di una cerchia di potere il cui solo obiettivo è la sua riproduzione ….per sporogenesi come la muffa.
Letta ha il compito di ritardare o camuffare il quesito: …ma ne vale la pena?
Meglio Letta della Serrachiani e ancor più della Madia. Se avessimo giudicato dai primi passi i politici pochi si sarebbero salvati.