di Paolo Maninchedda
Questa storia dei selfie del Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana non è una banalità. Quando un Governo è a corto di idee (perché i grandi buchi finanziari, in Italia, sono centrali, non periferici) e procede a saccheggiare con destrezza le casse delle Regioni (alla Sardegna l’Italia deve 1,2 mld di euro di compartecipazioni e io non smetterò di dirlo e di ripeterlo, e prima di fare accantonamenti – cioè prelievi indebiti – il Governo italiano dovrebbe restituire soldi sottratti con destrezza istituzionale e furbizia volpina), facendo pagare loro la propria propaganda, significa che si è davanti a un uso consapevolmente manipolatorio della comunicazione. È il solito conflitto tra Cesare e il Senato. Un aristocratico della politica (cioè uno che sarebbe stato senatore di Roma) capeggia il popolo contro il suo ceto (i senatori, ormai marci, consunti e consumati dal parassitismo delle rendite) promettendo al popolo sicurezza e prosperità, ma non dicendogli che tutto questo ha un prezzo: una diminuzione di libertà. A favore di chi? Ovviamente di Cesare, che per poter paternamente provvedere ai propri figli, ha bisogno di mani libere. È una vecchia, vecchissima storia che i protagonisti hanno sempre cominciato a interpretare in buona fede e poi hanno sempre finito per forzare in malafede per non esserne travolti. I selfie sono la simulazione dell’uguaglianza, il vezzo accattivante del potere, il preludio all’ingombrante presenza quotidiana in televisione per lenire, sedare, redarguire, guidare. E poi, che cosa dice la storia? Che c’è sempre un uomo libero che muore martire per testimoniare pacificamente che non ci si subordina a nessuno e un altro, invece, che fa saltare tutto per aria, dittatore/manipolatore e Senato compresi. Io sto col martire, ma temo l’ammirazione che si porta dietro il secondo. Cicli dell’ossessione umana.