Ieri l’Unione Sarda ha dato una notizia importante, ovviamente relegata in cronaca a pagina 30.
Questi i fatti.
Una donna, avvocato milanese di 51 anni, ha denunciato il marito maresciallo dell’Arma in servizio oggi a Monza e, all’epoca dei fatti, alla Procura di Milano, per violenza sessuale perpetrata in una casetta del litorale di Costa Rei durante una vacanza trascorsa in Sardegna dal luglio all’agosto 2017.
La signora (titolo meritatissimo in questo mondo di dottori e quant’altro senza umanità) si è presentata nell’aula giudiziaria accompagnata dalla figlia e ha rilasciato una liberatoria al giornalista Francesco Pinna perché il suo nome e quello del suo aggressore potessero essere pubblicati. Una delle pochissime vittime che riescono a non provare vergogna di esserlo.
Dimostrare una violenza carnale tra coniugi è quanto di più difficile si possa fare in un’aula giudiziaria. E qui bisogna apprezzare il lavoro del PM, Gaetano Porcu, uno dei pochissimi davighiani sardi, e della polizia giudiziaria, guidata in queste indagini da una donna. Bisogna apprezzarlo perché scrupoloso, perché informato a riscontrare con esattezza le prove (non come fanno altri a farle ‘tornare’ per forza).
Il marito, che per anni, da quel che risulta dal processo, aveva preteso alcune pratiche sessuali dalla moglie che si era sempre rifiutata di praticarle, approfittando degli spazi angusti della casetta estiva e della presenza delle figlie nella stanza accanto, la avrebbe costretta a subirle in silenzio. Il giorno dopo la signora chiamò in lacrime un’amica e si confidò per un’ora con lei sulla violenza subita. Questa era l’unica prova materiale che la signora poteva esibire. Il Pm e la polizia giudiziaria hanno acquisito i tabulati e scartabellando tra migliaia di chiamate hanno individuato quella durata un’ora nel periodo considerato (non sembri una banalità. Quando io denunciai una persona che mi aveva insultato in rete, i Carabinieri risposero al PM che era impossibile identificarla. Quando pubblicai la notizia, il sindaco del paese di residenza del maldicente, mi disse che lo conoscevano tutti). Hanno poi interrogato l’amica che negò di essere stata mai messa al corrente della violenza. La PG, però, è poi riuscita a registrare una seconda telefonata tra le amiche, nella quale la testimone confessava di aver mentito perché aveva subito pressioni dall’ambiente di lavoro del marito di tale portata da non essere stata capace di resistervi.
Non so se a Milano la signora sarebbe riuscita ad avere giustizia.
Non so se a Milano avrebbero fatto indagini così accurate.
Il tribunale ha condannato il marito maresciallo a due anni e otto mesi.
Non so se sia molto o poco per il reato commesso.
So che di queste cose bisognerebbe parlare in prima pagina e nelle scuole.
Bisognerebbe insegnare che il sesso non è un possesso, che il prendere e il dare appartengono al commercio non al sesso. Un grande poeta medievale cantava che avrebbe avuto il piacere della sua amata se la concupiscenza non glielo avrebbe tolto. Prendere vuol dire uccidere. Integrarsi vuol dire vivere.
La pornografia sta insegnando ai giovani che la sessualità è un linguaggio di dominazione e di subordinazione, di possesso e di servitù.
Nessuno insegna più che la sessualità è un dialogo naturale, una forma di comunicazione non verbale, l’unica integrazione fisica possibile e per questo preziosissima.
La sessualità è intimità fisica che può diventare una grande esperienza mentale. La sessualità non è ginnastica, esibizionismo, è un surrogato del piacere mistico, del piacere dell’anima.
Avant’ieri a Cagliari la giustizia ha fatto educazione.
Bisognerebbe gridarlo ai quattro venti.
Mi sembra un commento molto opportuno, soprattutto in questi tristi tempi di ignoranza che si trasforma in violenza
E fintzas tue, Paulu, cun cust’artículu as fatu educatzione. Meda. Manna. Netzessària.
Sinono cherimus èssere animalia, no umanidade, prus disponíbbiles a fàghere peus de sos animales. Nois cun curpa.
Non conosco il caso e non dico niente. Ma Dio ne scampi dalla giustizia che fa educazione