Come è noto ai lettori di questo blog, tra il sottoscritto e la Guardia di Finanza c’è lo stesso rapporto che intercorre tra il bene e il male.
Fu un finanziere a sostenere che io avevo firmato da capogruppo un atto che non avevo firmato anche perché non sono mai stato capogruppo, e da allora in diversi hanno tentato di beccarmi a parcheggiare sulle strisce pedonali o nei posti riservati ai disabili pur di avere qualcosa da contestarmi – uno, simpaticone, in un rapporto mi fece diventare anche Assessore regionale dell’ambiente pur di collegarmi all’inceneritore di Macomer.
Non ho mai capito da dove venga questo pregiudizio, ma mentre prima me ne dolevo, adesso me ne sono fatto una ragione e combatto sul mio terreno, osticissimo per loro, che è quello del sapere.
Mi è capitato di poter leggere solo atti di processi giunti ormai almeno al rinvio a giudizio o alla sentenza di primo grado, e in tutta questa massa di documenti (mi manca la lettura della migliaia di pagine del fine indagini dell’inchiesta Ippocrate, ma mi è bastato leggere la contraddittoria e non riletta ordinanza di custodia cautelare che ormai conosco a memoria) c’è sempre una costante: non bisogna fidarsi della trascrizione (in genere parziali e con qualche travisamento, come si vedrà) che spesso la Guardia di Finanza fa delle intercettazioni. E già questo è un bel problema: non fidarsi della Gdf è come non fidarsi dello Stato.
Prima di parlare di un caso eclatante di cui si occupano oggi alcuni quotidiani, bisogna riassumere cosa ragionevolmente succede durante un’indagine.
Chi ascolta gli intercettati? Ovviamente non il magistrato, ma un sottufficiale e/o un ufficiale della Guardia di Finanza. Poi accade che questi facciano un rapporto di Polizia giudiziaria al Magistrato. Qui sta il punto: il magistrato legge i rapporti e deve – non può fare diversamente – fidarsi dei suoi investigatori. Accade, però, ciò che i giornali raccontano oggi.
Il fatto è raccontato oggi da Il Fatto Quotidiano, cioè dal giornale più giustizialista esistente sulla piazza (e che io leggo solo per educarmi a resistere al dolore).
Si tratta della famosa cena all’Hotel Champagne (i luoghi sono sempre ironici!) di Roma, tra Luca Palamara, cinque membri del CSM, e i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. Argomento: la nomina imminente da parte del CSM del nuovo procuratore di Roma, al posto di Giuseppe Pignatone.
La cena si svolse il 9 maggio del 2019. Se ne è parlato ieri durante il processo in corso al CSM contro Palamara (che seguo, anche in questo caso, per masochismo, per l’alta censura posta in essere sul sistema politico che ruotava intorno a Palamara, di cui si fa vedere solo un pezzettino di pube per non mostrare, al presunto stupido volgo, tutte le vergogne).
Fino a ieri, tutti commentavano il contenuto di quella cena sulla base della trascrizione di una frase pronunciata da Luca Lotti, riportata nei rapporti della Guardia di Finanza, che testualmente era la seguente:
“Si vira su Viola”.
Viola era il Procuratore di Firenze, uno dei candidati alla carica di Procuratore di Roma.
Ovviamente, questa trascrizione induceva a ritenere che: 1) Lotti dava la linea; 2) i magistrati eseguivano.
E invece, che cosa si è scoperto?
Si è scoperto che Lotti arrivò tardi alla cena ed esattamente mentre i membri del CSM facevano i conti dei voti a favore e contro i diversi candidati. Ascoltate le chiacchiere, disse:
“Si arriverà su Viola, sì ragazzi”.
È un po’ diverso e non manca di sottolinearlo Il Fatto che per l’appunto nota che la frase di Lotti da prescrittiva o programmatica diviene descrittiva con gaudio (Viola era gradito a Lotti), cioè diviene quella di uno che prende atto con piacere di decisioni altrui.
Se avete dubbi sull’audio, ascoltatelo, è riportato qui.
Il Fatto scrive assolutoriamente che l’intercettazione “fu trascritta male”. Ma scherziamo?
Non si può arrivare, lo dico tecnicamente (cioè dal punto di vista di uno che insegna la tassonomia degli errori meccanici di trascrizione) da “Si vira” a “Si arriverà”; lo impedisce il numero notevolmente differente delle sillabe e la differente sillaba tonica: è impossibile confondere una parola piana (vìra) con una parola tronca (arriverà). Non si tratta di un errore di trascrizione.
Di questi fatti sono piene le vicende giudiziarie dell’Italia, ma chi compie questi “errori” non paga mai, è sempre al suo posto, non viene né sanzionato, né trasferito.
Le solennissime e malevoli fesserie che è possibile leggere in molti rapporti di Polizia Giudiziaria cadono sempre nel rango degli errori colposi, mai in quello dei dolosi, e così le pessime abitudini investigative si radicano in profondità, proteggono le carriere e gli encomi perché protette dall’immunità garantita dal celebre “cane non mangia cane”.
Dal canto nostro, sempre più si radica il dovere della lotta del sapere contro la brutale ignoranza del potere. Se solo potessi insegnare i rudimenti della critica del testo a una classe di finanzieri…
La GdF non è più quella di una volta…
Ma anche in altri ambiti si è giudicati frettolosamente….
Sono sempre più convinta che il male assoluto è davvero l’ignoranza. In tutti i sensi ed a tutti i livelli. Libera nos, Domine!
A proposito di “errori” giudiziari consigliamo il podcast “Polvere” di Chiara Lalli e Cecilia Sala, sul clamoroso caso dell’omicidio di Marta Russo avvenuto il 9 maggio 1997 a Roma.