La settimana appena trascorsa è stata caratterizzata da importanti dichiarazioni del presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia e del vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura David Ermini. Per onorare queste affermazioni sospendo l’analisi dell’ordinanza della Procura di Oristano divulgata con l’altisonante conferenza stampa di cui i miei lettori ormai sanno tutto.
Cosa ha detto la dottoressa Cartabia?
Ecco le frasi salienti: «La giustizia deve sempre esprimere un volto umano». «È evidente che i processi troppo lunghi si tramutano in un anticipo di pena anche se l’imputato non è in carcere».
David Ermini: «Il cittadino deve poter contare su un processo breve e giusto; la giustizia non può essere vendetta».
La bellezza di queste parole è evidente. Il valore pratico è stato, sostanzialmente, la bocciatura da parte della Corte Costituzionale di una parte del cosiddetto “Decreto Spazzacorrotti”, la parte nella quale, barbaramente, si prevedeva, l’applicazione retroattiva del carcere per i reati contro la pubblica amministrazione, assimilati ai reati di criminalità organizzata e terrorismo.
Il problema, però, della durata del processo sta diventando fuorviante e fuorviato, come sempre in Italia.
Perché per dire che un evento dura troppo, occorre definire da quando inizia. Il primo punto, in Italia, è che la durata delle indagini preliminari e la stessa carcerazione preventiva hanno durate opzionali. Un esempio?
Dieci anni di indagini preliminari È tornata agli onori della cronaca, in virtù della tragedia del Coronavirus, la vicenda della professoressa Ilaria Capua. La vicenda è stata ripresa magistralmente dal quotidiano Il dubbio, da sempre voce di opposizione al giustizialismo italiano (ovviamente poco letto in Sardegna, patria di partecipazioni di massa alle esecuzioni pubbliche). Questo l’articolo.
Riassumo la vicenda. Nell’aprile del 2014, il settimanale L’Espresso pubblicò un servizio intitolato: “Trafficanti di virus”. Secondo la tecnica del linciaggio, largamente praticata anche in Sardegna, al primo servizio giornalistico ne seguirono altri e la professoressa Capua e il marito vennero additati come oggetto di indagini per un traffico di vaccini. Nel 2015 vennero rinviati a giudizio insieme ad altre trenta persone. Da quando duravano le indagini? Dal 2005, segretamente. Inutile dire che Ilaria Capua nel 2016 venne assolta perché il fatto non sussiste. La cosa più interessante, però, è che L’Espresso nel 2018 è stato assolto dal reato di diffamazione a mezzo stampa ai danni della dottoressa Capua in ragione del fatto che aveva dato conto di atti giudiziari. Benissimo. Per la Repubblica italiana, se uno schizzo di veleno ha come fonte la magistratura, può legittimamente divenire un mare di fango se un giornale lo pubblica. Una logica stringente, un Paese di sofisticata inciviltà.
Dov’è oggi Ilaria Capua?
In Florida, Usa.
Chi aveva condotto le indagini? Il dottor Capaldo. Chi aveva svolto le indagini di Polizia Giudiziaria? I Nas. Qualche giorno fa Il Foglio ha pubblicato la relazione fatta dagli ispettori ministeriali inviati a analizzare l’operato dei magistrati (in Sardegna si contano sulle dita di una mano le ispezioni ministeriali, per non dire le azioni del Procuratore Generale della Cassazione a carico di magistrati. Non solo: in Sardegna è tale la contiguità tra magistrati e avvocati che non si trovano facilmente avvocati disponibili a agire contro magistrati. Tutti devono pur campare). Vi si legge, pensate un po’, che il magistrato aveva commesso una grave violazione e una inescusabile negligenza. Tutto qui. Capite? Mica “dolo”, “abuso”, “manipolazione” come i magistrati e la Pg ordinariamente attribuiscono ai loro imputati. No: “inescusabile negligenza”. In Sardegna questi eufemismi vengono salutati con un deferente invito ad andare a digerire. E qui sta il punto: le indagini senza fine sono il prologo del processo senza fine; la tendenza delle narrazioni dell’accusa a far tornare tutto pur di giustificare anni di indagine resta costantemente impunita in Italia. La responsabilità dell’errore è sempre negligenza per il magistrato, mentre è costantemente colpa di cui discolparsi per l’imputato.
Casi sardi Ma, si dirà, in Sardegna tutto ciò non accade. No, in Sardegna accade di peggio: alcuni giudici o alcuni giudizi rivelano l’errore di alcune procure e non succede assolutamente nulla. La possibilità della reiterazione del reato produce carcere per gli indagati (e la valutazione del rischio è un fatto eminentemente soggettivo, ma nelle Facoltà di Giurisprudenza non si insegna più che al giudice si richiede sia la subtilitas intelligendi che la subtilitas applicandi), mentre la possibilità della reiterazione dell’errore del magistrato non è neanche astrattamente contemplata. Nella vita comune, chi sbaglia paga; in magistratura, chi sbaglia resta se non scoppia troppo baccano.
In Sardegna è accaduto, in udienza, che l’imputato Tizio fosse accusato di aver dichiarato a verbale lo svolgimento di una riunione di un organo collegiale mentre, secondo l’accusa, quella riunione non si sarebbe mai svolta.
La difesa di Tizio interroga in giudizio la polizia giudiziaria e chiede se negli ambienti nei quali si svolgevano le riunioni erano state collocate microspie. Risposta: sì. Poi chiede se confermava ciò che veniva riportato in atti dall’Accusa e cioè che la riunione non si era mai svolta. Risposta: sì. La difesa chiede di far ascoltare una delle tante intercettazioni ambientali presente tra le intercettazioni registrate. Nell’aula si diffondono le voci dei presenti alla riunione dell’organo collegiale di cui Tizio faceva parte. Silenzio e gelo.
Ora, in un Paese normale, che cosa sarebbe accaduto al magistrato responsabile dell’accusa? Ditevelo da soli.
In un Paese come l’Italia, e in una regione periferica come la Sardegna dove l’informazione non esiste, dove ‘tutto si tiene’, dove la paura la fa da padrone, non succede assolutamente nulla. Nulla di nulla e per nulla.
Caso isolato, si dirà. E come no? Ecco l’altro caso di cui ho spesso parlato e del quale non smetterò mai di parlare.
Una Procura accusa una dipendente pubblica di aver inoltrato a un altro ufficio pubblico atti non richiesti, per condizionare la decisione che quell’ufficio doveva assumere.
L’ordinanza del giudice interpellato dalle parti per la revoca di un provvedimento laterale rispetto al processo penale, rivela che l’accusa aveva a disposizione gli atti, e non li ha utilizzati, che svelavano che la povera dipendente aveva ricevuto espressa richiesta dall’ufficio interessato
dei documenti che l’accusa non riteneva opportunamente inviati.
La Procura aveva dunque a disposizione le carte per non formulare l’accusa, ma le ha ignorate e ha portato la dipendente a processo. Oggi, l’accusa (Procura diversa da quella che aveva formulato l’imputazione), chiede l’archiviazione. Molto piacere all’ombelico.
Voi potete pensare che una censura così pesante (avere a disposizione ciò che scagiona completamente un indagato e non usarlo) abbia portato a un provvedimento severo verso il magistrato? Assolutamente no. Gli indagati devono restare in carcere per il rischio della reiterazione del reato, i magistrati devono restare dove sono per ripetere l’errore finché esso non si afferma come verità
Amen.
Finché non si approverà una legge sulla responsabilità civile dei magistrati continueremo a vivere queste barbarie.