Nei giorni scorsi sono state depositate le motivazioni della sentenza del tribunale del riesame di Cagliari che ha annullato la sospensione di un anno dalle funzioni comminata dal Gip di Oristano alla dott.ssa Maria Giovanna Porcu nell’ambito dell’inchiesta Ippocrate.
È una severa e argomentata lezione in punta di diritto su alcuni aspetti dell’inchiesta di cui non trovate alcuna traccia sui giornali sardi (ormai avviati ad essere letti in 90 secondi netti).
La Procura loquace di Oristano, quella delle conferenze stampa con parate di divise e telecamere, dovrebbe, con gesto nobile, fare ora una conferenza stampa dando conto al popolo (al cui plauso tiene tanto) non solo delle sue accuse, da dimostrare, ma anche del vaglio delle sue azioni da parte di un soggetto terzo.
Ma non lo farà. Siamo in Italia: esibizione pubblica della propria forza, oscuramento dei propri errori, in modo che nella memoria rimanga solo sul proprio momentaneo trionfo e la vergognosa umiliazione altrui.
Leggere questa sentenza (di cui non posso parlare finché non ne parlano altri) e metterla a confronto con le 11 righe della sentenza con cui il Gip di Oristano ha respinto, nei giorni scorsi, l’istanza di scarcerazione presentata da uno degli indagati detenuti, consente di sperimentare la variazione della cultura giuridica al mutare delle latitudini.
Giacché il detenuto si è avvalso della facoltà di non rispondere, il Gip deduce, in 11 righe, che (secondo logiche che di logico non hanno alcunché) egli intratterrebbe ancora (da prigioniero dimissionato e/o dimissionario da tutto) rapporti con altri indagati e quindi potrebbe reiterare il reato. Nient’altro. Nessun esame delle ragioni addotte dalla difesa rispetto al mutato quadro che aveva portato agli arresti. Zero argomentazioni; solo decisioni senza giustificazioni. La Cassazione sarà contenta di come le sue sentenze non facciano scuola. Secondo questa logica, l’indagato, cui la Costituzione riconosce lo statuto di innocente fino all’ultima sentenza utile, dovrebbe stare in carcere sino a quando decide di rispondere, e deve rispondere anche dinanzi a una Procura che indaga da anni senza mai interrogarlo, ma aspettando solo di arrestarlo e dopo averlo arrestato, pretende di interrogarlo con le carte coperte. Torquemada si complimenterebbe per la cultura e la pratica.
Non è una sana cultura giuridica. Un tempo nelle università serie si insegnava il principio, sacrosanto, sub lege libertas; a Oristano sembra in vigore il sub lege arbitrium, la legge del marchese del Grillo e della sua più celebre battuta.
Ben altra cultura ad Aosta.
Il Presidente della Regione, non un cittadino comune, è indagato per associazione mafiosa. Non è stato arrestato. Ha ricevuto un avviso di garanzia e può difendersi nel processo. A Oristano no. Prima si arresta, poi si parla. A Nuoro, a pochi mesi dagli arresti di alcuni amministratori, è arrivato il fine indagini. A Oristano no, nel Marchesato censito dall’Istat come quello dove si commettono meno reati, il carcere è strumento per indurre alla loquacità. A Oristano il processo è un fastidio, un inutile orpello rispetto al ferrigno e superbissimo incedere delle affermazioni (non delle ragioni) dell’accusa.
Ebbene, dinanzi a tutto questo c’è chi ha paura e tace e chi non ne ha e combatte. Il Marchese troverà sempre chi piegherà il ginocchio, ma può star certo che ci sarà sempre qualcuno che rimarrà in piedi. Sono sempre a casa, se serve.