Posto che sono rimasto solo ad affermare che l’indagine e le sentenze sui fondi ai gruppi del Consiglio Regionale della Sardegna meriterebbero una Commissione d’inchiesta che verifichi e porti alla luce il diverso modo con cui diversi giudici hanno valutato fatti non simili ma uguali.
E posto anche che nel clima da linciaggio che ha accompagnato il decennio delle sentenze sono rimasto solo a dire che il 90% dei condannati, se ha commesso un reato, lo ha fatto senza dolo, mentre per il tribunale di Cagliari gli unici non dolosi sarebbero stati i Riformatori, adesso ho l’obbligo di raccontare l’ultima sentenza, questa volta della mitica Corte dei Conti (l’unica cosa che ho sempre apprezzato della lunga carriera di Pietro Soddu è che pare non andasse mai al giudizio di parificazione del bilancio, perché riteneva la Corte dei Conti un’istituzione con potere ambiguo e costi incredibilmente a carico della Regione), che assolve Franco Sabatini dalla condanna a restituire all’erario oltre cinquantamila euro.
I giornalisti giudiziaristi non ne hanno parlato perché è più popolare la passione sportiva per la radiocronaca dal bordo della forca; un’assoluzione per prescrizione è per la gente, per il popolo di Nerone, come il perdono del furto e non, come è, un’assoluzione per giustizia praticata male.
E qui si tratta di giustizia praticata molto male.
La questione, in termini di diritto, sembra una questione di lana caprina (si può leggere dalla p.14 in poi), e cioè da quando decorre la prescrizione. Secondo la Corte dei Conti di Cagliari dalla data del rinvio a giudizio del processo penale; secondo la difesa di Sabatini dalla data di presentazione del rendiconto del gruppo che comprendeva le spese sostenute da Sabatini. Secondo la Sezione Centrale d’Appello della Corte dei Conti ha ragione la difesa di Sabatini.
Ed è proprio nelle spiegazioni delle proprie ragioni che la Sezione Centrale d’Appello della Corte dei Conti pone un grande problema a tutto ciò che anche in sede penale è stato fatto in Sardegna.
Infatti la Corte afferma che il luogo di verifica della pertinenza delle spese era in primo luogo il Gruppo (cosa che complicherebbe, però, non poco la vita ai capigruppo e ai tesorieri), ma soprattutto lo era l’Ufficio di Presidenza del Consiglio, che pur non disponendo, per sua volontà, delle pezze giustificative, aveva pur sempre la relazione illustrativa delle spese sostenute che consentiva la verifica della pertinenza delle spese con il quadro normativo che le regolava. Non solo. Un ulteriore verifica veniva operata dal collegio dei Questori in sede di approvazione del bilancio del Consiglio regionale, il quale, peraltro, da chi era vigilato nella regolarità della compilazione e delle spese? Questo la Sezione Centrale d’Appello non lo dice, ma lo sappiamo tutti: dalla Corte dei Conti.
Ciò che è stato riconosciuto ai Riformatori, doveva essere riconosciuto a tutti, ma è tipico dei partiti elitari ottenere i riguardi delle élite e disinteressarsi delle ingiustizie diffuse. Come è tipico di una magistratura confusa non avvertire neanche l’imbarazzo delle proprie contraddizioni.
A questo punto è infatti un po’ difficile fare, come invece è stato fatto nelle sentenze cagliaritane, figli e figliastri rispetto al dolo. Come si fa (come invece è stato fatto) a dire che un consigliere regionale che non doveva conservare le pezze giustificative (e ricordo che in alcuni giudizi si sono pretesi documenti coevi ai fatti a distanza di anni, in altri invece sono bastate le testimonianze ora per allora) e che sapeva che in prima istanza la sua attività era vigilata dal Gruppo, poi dall’Ufficio di Presidenza e dal Collegio dei Questori e infine dalla Corte dei Conti, e che si vedeva ogni anno approvato tutto, era dolosamente consapevole di usare illegittimamente le risorse? Ma soprattutto, come si fa, in questo contesto, nel quale il controllo dei documenti contabili dei gruppi ha assunto valore vero e non solo di banale annotazione contabile, a ritenere per alcuni credibili i testimoni e per altri no e non rispetto a ciò che dicono, ma per il solo fatto di dirlo su fatti pregressi non attestati da documentazione coeva? Se la magistratura costringe a dimostrare, a distanza di anni, ciò che chi doveva controllare ha già controllato, a chi deve rivolgersi una difesa sincera, se non a testimoni? Com’è che per alcuni l’affitto di locali, già valutato come legittimo dal Gruppo, dall’Ufficio di Presidenza e dal collegio dei Questori, era attività del Gruppo e per altri era attività elettorale? Com’è che alcuni contratti di collaborazione, che comunque attestano che il consigliere non si teneva i soldi per sé, per alcuni siano stati ritenuti corretti e per altri, invece, iscritti all’illegittimità dei collaboratori per la campagna elettorale, e tutto questo sempre immaginando e sostenendo una solida componente dolosa?
La verità è che la Sezione Centrale d’Appello della Corte dei Conti ha escluso, com’è ragionevole che sia, il dolo per molti. Certamente non per tutti, ma ciò che è stato chiaro sin dall’inizio è che una indagine che doveva circoscrivere pochi ed evidenti abusi, ha poi voluto mettere sotto processo un’intera generazione politica, sull’onda di una generica volontà punitiva che è ancora molto viva nella società e tra le toghe. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la fuga delle persone più capaci dalla politica, la mediocrità al potere, la magistratura inebetita dalle sue stesse pretese di controllo generalizzato di moralità e di legalità, non foss’altro che per la constatazione che non hanno portato a una sostituzione in meglio del ceto politico, ma alla sua apertura agli strati meno competenti della società.
Un caso clamoroso di mala giustizia con una specifica connessione sulle peculiarità di somministrazione della stessa nella Colonia d’oltremare.
Sul contributo dell’informazione in Sardegna nella fattispecie è d’uopo stendere un velo pietoso.