Potete ascoltare qui, dal min. 47,50, (o leggere di seguito la nostra trascrizione) l’intervento del Presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick al Convegno di Area Democratica per la Giustizia, la corrente della magistratura italiana che, da sola, denunciò il meccanismo delle nomine nei diversi uffici giudiziari.
È un durissimo, rigoroso ed educato atto d’accusa verso la magistratura italiana, accusata di essere ipocrita, interessata alle porte girevoli della politica, esposta alla corruzione, vocata a trasformarsi da istituzione che persegue l’abuso d’ufficio in tempio dell’ufficio di abuso. Di questo grande intervento non vi è alcuna traccia nei giornali italiani.
II CONGRESSO – Giustizia e società. Diritti e giurisdizione nella crisi della democrazia rappresentativa
8 giugno 2019
«Sono stato convocato per rendere questa testimonianza l’altro ieri sera.
Ritengo mio dovere renderla. Ho già preparato il verbale, cioè una piccola relazione che, se credete, firmerò davanti a voi e che lascio a vostra disposizione.
La vorrei sintetizzare in due battute un po’ spinte.
Non basta che il magistrato non sia corrotto, deve essere anche corretto: la prima ipotesi.
La seconda: non diamo la sensazione di trasformare l’abuso di ufficio, che contestiamo agli altri, in un ufficio di abuso quando la questione tocca noi.
In realtà devo spingermi un po’ più avanti e più a fondo nella mia testimonianza. Una riflessione preliminare è doverosa: non conosco nulla dei fatti, né degli atti della vicenda, se non gli stralci di ordinanze, i verbali e le dichiarazioni e le prese di posizione ufficiali e pubbliche del Consiglio Superiore e dell’ANM, come pubblicate sui media.
Mi auguro, non solo formalmente, che chi è coinvolto nelle indagini giudiziarie e nei procedimenti disciplinari, due cose che devono restare ben distinte, possa almeno circoscrivere e contestualizzare i fatti, vorrei poter dire, possa dimostrare la propria estraneità alla vicenda: glielo auguro e me lo auguro, anche se mi pare difficile.
Soprattutto registro lo sconcerto e lo smarrimento per quanto è emerso, che trova riscontro nel dibattito al CSM. Lo sconcerto e lo smarrimento si manifestano in più prospettive, in parte rivolte al passato, in parte al futuro.
Per il passato mi spaventa l’atteggiamento di assuefazione, se non di indifferenza, di chi ritiene questa vicenda l’ennesima conferma di un sistema praticato abitualmente nelle procedure di nomina da parte del Consiglio, anche se, in questo caso, manifestazione più clamorosa e più spudorata.
Accanto all’assuefazione, la nostra generale incapacità di indignarci a sufficienza rispetto agli sfregi sempre più frequenti e pesanti agli organi istituzionali del nostro Paese, si tratti del potere legislativo, esecutivo o dell’ordine giudiziario.
La vicenda di cui parliamo oggi però produce effetti forse più gravi, proprio per l’autonomia e per l’indipendenza che caratterizzano e devono continuare a caratterizzare l’ordine giudiziario. In esso a mio avviso, e non solo mio, nulla può giustificare che il confronto delle idee e la competizione tra le aspirazioni personali si trasformino in battaglie politiche, se non tra bande contrapposte.
Non siamo disposti a riconoscerlo alla politica, dove pure la contrapposizione è legittima, direi doverosa, ma questo è ancora più intollerabile nell’ordine giudiziario: il ruolo e lo status dei responsabili arrecano un vulnus gravissimo alla fiducia dei cittadini verso un ordine dello Stato, e a livello di legalità effettiva e percepita del nostro Paese.
La vicenda, a mio avviso, ha avuto finora diverse prospettive di lettura.
La prima è l’analogia tra lo strumento privatistico del contratto per programmare la politica del paese che giustamente è stato criticato – ma quel contratto almeno è trasparente ed è alla luce del sole – e i ‘giochi di potere’, così definiti dal vice presidente del CSM, che sono privati e clandestini, per guidare e condizionare le scelte dei capi degli uffici giudiziari più importanti da parte di un organo di rilevanza costituzionale, il cui compito è proprio quello di garantire l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati.
La seconda prospettiva è quella della tentazione di una lettura corporativa e assolutoria della vicenda, entro certi limiti anche da parte della stessa ANM, che in un primo momento, e in via generale e astratta, è sembrato volesse affermare o teorizzare la liceità, se non la doverosità, delle relazioni tra politica e giustizia.
La parallela accusa ai media di aver scatenato una caccia alle streghe per aver dato doverosa notizia di quanto risultava emerso non dal gossip, ma da fonti giudiziarie.
La terza prospettiva può essere – dannosa – la fretta di circoscrivere l’episodio e di voler voltare pagina al più presto.
Un po’, consentitemi di dirlo, traspare nel documento unitario votato dal CSM con un unanime apprezzamento per la dignitosa scelta delle dimissioni da parte di un consigliere e per la scelta responsabile degli altri consiglieri di autosospendersi.
Non so quanto vi sia da compiacersi, per un istituto non previsto dalla legge, rimesso alla volontà dell’interessato, revocabile, come sembra capiti in questi giorni, da un momento all’altro. Per il rispetto dell’organo di rilevanza costituzionale di cui si è componenti, io credo che ci si possa dimettere o si possa essere sospesi, semmai, in conseguenza dell’iter disciplinare.
C’è infine la prospettiva che guarda correttamente al futuro. Ma si può farlo in molti modi non tutti radicali e non tutti risolutivi.
Si potrebbe, anche inconsapevolmente, voler rinviare il problema fino alla prossima crisi, intanto passa dalla prima alla seconda alla terza alla quarta alla quinta pagina dei giornali.
Bisogna avere l’onestà e lo scrupolo, istituzionale, di fare il possibile per escludere da ora nuove recidive.
Un’ipotesi non risolutiva, a questo proposito, è l’autoriforma, che pure è stata prospettata.
A me sembra che occorra, non solo per rispetto della Costituzione, una riforma per legge, non però in un momento come questo di concitazione, in cui, tra l’altro, si affacciano neppure troppo velate intenzioni e propositi di farla pagare alla magistratura e ai singoli magistrati; non per le degenerazioni e per l’eccessiva contiguità con la politica, ma per le indagini svolte in materia di corruzione, finanziamenti illeciti, voto di scambio, reati economici e fiscali.
Per aprire il capitolo del futuro e di ciò che occorre fare, per restituire credibilità e fiducia alla magistratura, io credo che si debba partire dai quattro livelli efficacemente descritti dal vicepresidente del CSM e che a me sembra rispecchino le indicazioni del presidente del CSM, del Capo dello Stato.
Il livello lecito dell’associazionismo e dei suoi tanti meriti per la storia, il cambiamento, l’evoluzione della magistratura, purché, lo dico e lo ritrovo con soddisfazione nel documento dell’ANM di questi giorni, la magistratura rinunzi definitivamente alle porte girevoli con la politica, che troppo spesso vengono fatte girare dai politici, ma che altrettanto spesso vengono varcate dei magistrati.
Il secondo profilo, il secondo livello, è quello della degenerazione correntizia, forse non illecita, ma negativa quando da espressione del pluralismo si risolve nell’antitesi tra indipendenza e corporativismo. Lo ricorda Edmondo Bruti Liberati in quel suo bel lavoro. Gli ricambio la cortesia: ha avuto la benevolenza di citarmi, forse unico, per giustificare il mio comportamento come ministro; mi sembra giusto ricambiare il discorso a lui, grazie.
Antitesi tra indipendenza e corporativismo, in cui le rivendicazioni di indipendenza e l’espressione della cultura giuridico istituzionale della sensibilità costituzionale si confrontano e si scontrano con l’ideologia corporativa, l’autoreferenzialità, il distacco del dibattito dalla società. Penso anche all’insofferenza per la critica alle sentenze e ai provvedimenti giudiziari. La critica è sempre lecita ed è altra cosa rispetto alla delegittimazione.
Poi c’è il terzo livello: quello dei giochi di potere, sto citando espressioni testuali o date dal vicepresidente del CSM, dei giochi di potere sui tavoli più o meno clandestini, per gli accordi e i baratti delle nomine che rasenta pericolosamente la zona della rilevanza penale e, a mio avviso, ne varca i confini, quantomeno sotto il profilo dell’abuso d’ufficio.
Infine c’è il livello dei traffici venali, come con espressione elegante ed eufemistica, il vice presidente del CSM descrive quella che è la corruzione, la quale si accompagna ad altre fattispecie penalmente rilevanti, spesso, come la calunnia, i falsi eventuali nella motivazioni.
E allora affrontare questo discorso dei quattro livelli è soprattutto un problema di cultura della legalità e della responsabilità; dopo è il caso di prassi predeterminate e trasparenti, previste, queste sì, per legge, nelle candidature, nella selezione e nei conferimenti degli incarichi.
Io sono entrato in magistratura nel 1964, vi sono rimasto per 12 anni, l’esperienza allora maturata e quella successiva di operatore del diritto, come avvocato e come professore, poi di civil servant, infine di giudice delle leggi anziché degli uomini, mi hanno insegnato che la certezza che speravo di trovare nella legge, quando scelsi di fare il magistrato, certezza con il suo seguito di dogmatismi e e di autoritarismo, era almeno in parte un’illusione o un’utopia. E che a quella certezza si sovrapponeva la forza del ragionevole dubbio (non di quello neurotico da ansia), maturato nel confronto e nel dialogo. Poi lo studio del multi level nell’ordinamento europeo unitario, il dialogo fra le corti e fra esse e i giudici ordinari, mi hanno confermato in questo convincimento e mi hanno reso più consapevole della grande responsabilità del compito del magistrato di fronte alle sfide e alle difficoltà della società di oggi.
Mi sono sempre più convinto che la professione, non la missione (non è una missione), del magistrato, la sua vocazione alla supplenza, quella alta, nel senso di un’attuazione della Costituzione attraverso l’interpretazione delle norme, ma non la loro creazione, sempre più frequente, sono valori che non possono essere profanati da vicende come quelle di cui oggi dobbiamo purtroppo discutere.
Sono valori che una volta perduti e dilapidati difficilmente si ricreano.
Sono valori testimoniati da tutti quei magistrati che, come gli esponenti delle forze dell’ordine, hanno pagato con la vita l’impegno nell’azione di contrasto al terrorismo, all’eversione e alla criminalità organizzata. Insultarli con i giochi di potere e con i traffici venali è inaccettabile e auguro alla magistratura di saper realmente voltare pagina rispetto a quei giochi, e, se vi sono, a quei traffici.
Ma le mie considerazioni sarebbero incomplete e forse sarebbero insincere se non aggiungessi un sostantivo e un’autocritica. Il sostantivo è l’ipocrisia. Le relazioni umane ne sono piene. Si insinua nei rapporti più intimi, quelli professionali, gerarchici e fra pari. Qualche volta persino nel rapporto con se stessi quando la forza e l’equilibrio personali non sono sufficienti a tenere sotto controllo timori e turbamenti.
Ma quando l’ipocrisia diventa la cifra stabile e definitiva delle relazioni tra le persone e all’interno dei gruppi, come tali tendenti sempre alla degenerazione corporativa, allora l’ipocrisia prima è un sonnifero, poi rischia di diventare un cancro.
Quanta consapevolezza c’è in tutti noi, in tutti voi, anche quando non ne siamo o non ne siete partecipi e riteniamo o ritenete di essere più virtuosi di altri, quanta consapevolezza c’è delle prassi e dei comportamenti che vanno scritti a pieno titolo nel secondo e terzo livello di degenerazione correntizia e giochi di potere?
E quanto siamo disposti ad ammettere che fra il terzo livello e il quarto, dei traffici venali, il confine è netto, ma il terzo livello è l’anticamera del quarto, specie tenuto conto che i contesti corruttivi si sono evoluti? Non c’è un corrispettivo in più per aver ottenuto una prestazione; ci sono servizi, agevolazioni, benefit, ospitalità, giochi di potere fatti apposta per sfumare i confini o per riconoscerli troppo tardi.
Eppure, per troppi anni ci siamo riempiti la bocca in ANM, al CSM, nella dottrina dell’autoriforma, con la sfida della professionalità tra virgolette, con il riconoscimento del merito nelle nomine, con motivazioni così ben strutturate da essere troppo spesse impugnate dal collega soccombente e non di rado annullate dal giudice amministrativo, e, in tal caso, qualche volta, reiterate dal Consiglio che ha pure subìto il commissariamento del giudizio di ottemperanza.
Mai nessun dubbio, almeno in pubblico, che la sfida della professionalità sia stata vinta e che ogni consiliatura è migliore della precedente.
Auguro a voi e a me che la segnalata lodevole rapidità con cui il Consiglio ha inteso voltare pagina nei giorni scorsi, non si iscriva domani, in modo anche inconsapevole, in questo pericoloso circuito dell’ipocrisia.
Per non essere a mia volta ipocrita devo aggiungere un’autocritica.
In un’occasione, non seppi sottrarmi alla cortese sollecitazione di un magistrato del quale avevo apprezzato la capacità come collaboratore fuori ruolo in un mio incarico pubblico molto difficile. Aspirava a un incarico direttivo importante, ma non di primissimo piano. Mi indicò un capo corrente, espressione sua, non della sua e non lontana dalle vostre componenti, consigliere in carica e stimato magistrato, al quale riteneva importante far pervenire il mio apprezzamento. Telefonai a quest’ultimo, dicendogli che ero ben consapevole di quanto la mia opinione non avrebbe inciso sulle autonome valutazioni della commissione poi del plenum ma che in tutta onestà non potevo che dir bene di quel magistrato, al quale non mi legava alcun interesse personale o professionale. Mi trattò, io credo, con la cortesia che si riserva agli sciocchi o agli ingenui. E ci salutammo. Ovviamente non fu scelto il magistrato la cui capacità avevo segnalato, e fin qui poco male, anzi meglio. Non mi aspettavo qualche tempo dopo di essere indicato in un incontro pubblico da quel consigliere come un politico che aveva tentato l’interferenza nelle autonome determinazioni del consiglio. Io l’autocritica l’ho fatta adesso, ma sarei curioso di sapere se non vi sia un po’ di ipocrisia in quella denuncia, per la verità non aspra nei toni, e se la mia fu l’unica telefonata nel corso di quella consiliatura. Se così fosse stato non credo che oggi saremmo a parlare di mercimonio per la procura di Roma a danno e spero all’insaputa degli stessi candidati.
In una seconda occasione, scoprii una prassi che non conoscevo e di cui si parla pochissimo, mi auguro che non se ne parli perché è caduta in disuso, ma ne dubito.
I membri laici li elegge il parlamento. L’ideale sarebbe che i magistrati apprendessero i loro nomi dal telegiornale, si sarebbe detto un tempo, quello di Alice nel paese delle meraviglie. Non arrivo a questo punto di ingenuità, ma non sapevo che fossero concordati direttamente tra partiti e correnti, non tra partiti e associazioni dei magistrati, il che sarebbe già grave.
Avevo concluso altri incarichi costituzionali e pensai di candidarmi al CSM nella convinzione, o meglio, nella presunzione, che la mia esperienza in materia potesse essere ancora di qualche utilità. Feci in modo che ne fosse informato il Presidente della Repubblica per rispetto del presidente e del CSM, ovviamente non gli chiesi nulla e non chiesi neppure di essere ricevuto, ma mi sembrava doveroso informarlo.
Anni prima ero stato al governo con il centrosinistra e chiesi un appuntamento al segretario del maggior partito di centrosinistra. In attesa di essere ricevuto, cosa che poi non sarebbe avvenuta, se non un frettoloso saluto nel cortile di un convegno, incontrai i vertici dell’ANM, presidente e segretario insieme. Non chiesi di essere sostenuto. Li informai della mia intenzione di candidarmi, aggiungendo che mi sembrava corretto che anche loro lo sapessero prima. Mi ringraziarono, ma credo con una punta di imbarazzo mi spiegarono che l’ANM era comunque estranea alla vicenda, trattata direttamente dai partiti con le correnti e con i togati espressi dalle correnti. E, per quanto ne sapevano, i giochi erano già fatti. Ne ebbi conferma pochi giorni dopo, quando sia il segretario del partito sia il togato partecipanti a quel convegno mi dissero sbrigativamente concordi, l’uno in assenza dell’altro, che le designazioni erano già state fatte e all’esterno non se ne sapeva nulla.
Questa storia l’ho raccontata non per fare una seconda autocritica, penso che basti la prima, ma per proporre una riflessione.
Se la politica si mortifica al punto di scegliere i componenti laici col consenso delle correnti o di sottoporre a loro rose o persino di consentire il diritto di veto, la magistratura apparentemente stravince e mette la politica alle corde, ma in realtà crea le premesse per assumere essa stessa i comportamenti propri e legittimi nella politica, la trattativa, il compromesso, le contrapposizioni, innestandole in modo del tutto improprio in un ambito che dovrebbe essere totalmente estraneo a quei metodi e perciò corrompendo, tra virgolette, la funzione.
Se il CSM, la cui natura, anche politica, ovviamente non mi sfugge, ma nel senso istituzionale, ha il compito di scegliere il miglior magistrato disponibile per ciascun ufficio scoperto, il metodo dovrebbe essere quello della pubblica selezione e valutazione dei titoli, magari con l’audizione pubblica o meno, in commissione, dei candidati, poi sottoposti al libero voto dei consiglieri. E così forse potrebbe essere anche per i candidati laici in parlamento, rendendo trasparente quel percorso che io intrapresi allora goffamente.
Ora non avviene così, perciò temo che ai quattro livelli delineati dal vicepresidente del CSM se ne debba aggiungere un quinto, anzi un quarto bis: la politicizzazione dell’autogoverno della magistratura, che precede i traffici venali.
Centosessant’anni fa, Francesco Carrara, nel programma del corso di diritto criminale, scolpì un celebre aforisma: “Politica e giustizia non nacquero sorelle. Quando la politica entra nel tempio della giustizia, questa fugge impaurita dalla finestra”. Ma se nel tempio della giustizia già trionfa la politica, senza distinzione tra laici e togati, chi scaccerà i politicanti dal tempio?»
Giovanni Maria Flick, Presidente emerito della Corte Costituzionale
http://www.areadg.it/congresso2019/video-8giugno