di Rosa Maria Millelire
Lo spazio prende forma dagli elementi, sosteneva Platone. Aristotele diceva, invece, che lo spazio emana dagli oggetti, senza i quali non è che un semplice involucro vuoto. Infine Teofrasto propose di considerare lo spazio in quanto definito dalla posizione e ordine dei corpi, ma fu Plotino, sembra, il primo a dire che per ogni cosa c’è un “luogo proprio”, uno spazio specifico, “la stanza tutta per sé” che Virginia Wolf avrebbe associato all’emancipazione economica e alla libertà creativa. La stanza tutta per sé, il luogo in cui l’individuo possa riconoscersi nella propria dignità di uomo e di soggetto utile alla collettività; il luogo a partire dal quale costruire le fondamenta esistenziali della propria vita, privata e pubblica. Questo il senso dello spazio e dell’abitare per l’uomo, negli aspetti atavici e nelle esigenze moderne. E’ un diritto. Il primo diritto dell’uomo (dopo la salute, a cui spesso è connesso) è vivere in uno spazio che gli assicuri condizioni di vita dignitose; lo spazio interno, quello contenuto dai muri, quello in cui si svolge la vita privata dell’individuo e della famiglia, che protegge gli affetti, che conosce i sacrifici, dove, come in un grembo, si coltivano i sogni e le speranze dell’individuo e dei suoi affetti più grandi. Poi c’è uno spazio esterno, un contesto vasto e articolato su cui si proiettano parte dei fattori interiori e intimi dell’abitare, del proprio modo e senso dell’abitare, su cui ci si specchia e ci si riconosce, o meno, nella pienezza della dignità e delle qualità del proprio “vivere in quel mondo”.
Ecco, quindi, che il problema dell’abitare, sempre, ma in particolare quando concerne la richiesta dell’abitazione su vasta scala, la scala popolare, diviene un problema di sociologia dello spazio privato e pubblico, da affrontare con la sola soluzione della garanzia della qualità del progetto architettonico e del progetto urbanistico dell’insediamento, che a sua volta segna e modifica l’assetto della città (o paese) e del paesaggio, cui si affiancano problemi di infrastrutturazione e servizi.
La qualità del progetto urbanistico e architettonico, allora, è un problema tutt’altro che banale, e richiede grandi capacità e sensibilità. In questo progetto si contrappongono le due scale: quella prettamente umana, e quella complessiva della vita della comunità in quel luogo, che sempre e comunque nella soluzione di sintesi dovranno dialogare con il contesto paesaggistico, urbano o naturale che sia.
L’errore sul quale è incorsa la politica residenziale pubblica, in tutta Italia, e così in Sardegna, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, è stato quello di concepire l’abitazione come “alloggio” per i nuclei familiari, e non come abitazione (ne ho parlato in un altro articolo, qui su Sardegna e Libertà: bauen in tedesco vuol dire costruire ma anche abitare; il modo in cui gli uomini sono sulla terra è il buan, l’abitazione. Bauen esprime che l’uomo è in quanto abita, ma indica anche il circoscrivere e avere cura, che in relazione all’abitazione significa personalizzare, rendere proprio) cadendo da qui nel principio della serialità del costruire e della tipologia dell’alloggio che ha generato mostri architettonici, che ha devastato aree spesso tra le più belle della città o del paese, che ha creato quartieri dormitorio spesso ghettizzanti, privi di servizi e infrastrutture adeguate, con condizioni alienanti per l’individuo e di indotto e quasi obbligato livellamento sociale, in cui ogni velleità di miglioramento della propria condizione viene naturalmente mortificata da una oggettiva e sovrastante limitazione strutturale sociale e dello spazio generato. Con i gravi problemi sociali che spesso vi si riscontrano. Tutto assume proporzioni più gravi man mano che le città sono più grandi: pensiamo all’edilizia popolare di Cagliari e di Sassari e degli altri capoluoghi di provincia, e alle lottizzazioni di edilizia popolare dei piccoli paesi. Sebbene le criticità generali siano le stesse (serialità, scarsa o scarsissima qualità del progetto architettonico, scarsa qualità dei materiali di esecuzione, frequente sottodimensionamento degli alloggi rispondenti a standard superati, mancanza di spazi pubblici e servizi adeguati ad una integrata vita sociale del quartiere, isolamento geografico senza servizi adeguati per un efficiente collegamento con il “centro”, o pieno inserimento nel centro urbano con esclusione e repulsione – per le altre caratteristiche già descritte – dell’insediamento popolare da parte del contesto urbano e sociale circostante con la creazione di una sorta di linea immaginaria di demarcazione tra le due realtà, strade e infrastrutture non finite) nelle città più grandi notiamo una portata molto amplificata di queste criticità rispetto agli interventi di paese.
Disponendo di ingenti risorse, ci si trova pertanto davanti alla necessità di decidere: intervenire con la riqualificazione, o demolire e ricostruire? Sostanzialmente: si vuole incidere realmente, si vuole iniziare una nuova era avviando quel processo di progresso urbano e architettonico, e quindi culturale, delle nostre città eliminando con coraggio le brutture su descritte e immettendo nuove forme urbanistiche e architettoniche, prime testimoni di civiltà, la civiltà di quello che vogliamo sia lo Stato Sardo, o si vuole lasciare le cose invariate?
L’importanza del tema e della sfida non ci fa ritenere eccessivo chiamare in causa la storia sulla materia, la quale sempre fornisce spunti di riflessioni, e importanti insegnamenti.
La storia ci ha insegnato che le trasformazioni sul corpo vivo delle città si sono sempre attuate secondo una dinamica istruita da una doppia dimensione temporale e materiale. Da una parte ci sono state le lente trasformazioni sul corpo dei manufatti architettonici, su come essi venivano concepiti, dall’altra c’è stata una tempistica lenta, segnata anche dai secoli, ma fortemente incisiva nel momento dell’azione, fatta di operazioni alla scala urbana che hanno segnato e modificato stabilmente l’assetto delle città. Un esempio per tutti il Piano Sistino per Roma, la Parigi di Haussmann, o la Firenze del Poggi. In Italia l’ultimo esempio che racchiude il valore dell’operazione architettonica e urbanistica insieme è quello della città fascista, pensata per esprimere una nuova civiltà capace di un principio di identità originale e non paragonabile. E lo vediamo in diverse importantissime testimonianze anche in Sardegna. I quartieri di edilizia popolare della città fascista e le città fasciste in generale appaiono oggi come ieri assolutamente riconoscibili. Nell’urbanistica e nell’architettura fascista un uso semplificato della geometria si associa alla volontà di divulgare un concetto semplice: la razionalità e la funzionalità. Questo programma cambia di fatto il volto di intere città e ne realizza di nuove (Carbonia, San Priamo etc.) per diffondere nella società gli effetti di questa filosofia. Alla base di tutto la consapevolezza della importanza della forma sociale aggregata e della necessità che essa sia assolutamente efficiente e paradigmatica del momento storico.
Nel Movimento Moderno questo assioma fu compreso ed espresso per modelli. Nasce il concetto di standard, anche e soprattutto dimensionale, per pianificare lo spazio della città seguendo criteri che permettessero il miglioramento dei parametri di vivibilità, tenendo conto delle altre funzioni, non solo quella abitativa, della città. Per queste funzioni si attribuivano zone separate ponendo le basi della visione moderna dell’uomo sempre in viaggio tra casa e luogo di lavoro, e sempre più legato all’uso dell’automobile. E tutti sappiamo che il grande errore delle grandi operazioni urbane di questo periodo, (vedi la Firenze del Poggi) legate a questi principi, è stato quello di non salvare la vecchia città, le ricchezze che queste parti contenevano, cancellando grandi porzioni di ciò che oggi chiameremmo Centro storico.
Inizia la sperimentazione per trovare soluzioni illuminate a questo modo di operare: Tony Garnier nei suoi interventi lavora alla garanzia della scala umana, Le Corbusier elaborava modelli insediativi nelle più svariate direzioni e sempre legati alle sperimentazioni sulla forma urbana, arrivando a proporre nel Piano Obus per Algeri, per la prima volta un intervento alla scala del paesaggio, con un’alternativa alle rigide schematizzazioni della città razionalista, mentre con l’Unité d’abitation di Marsiglia perfeziona il blocco autosufficiente di tutti i servizi, un’utopia mai pienamente realizzata radicata nell’idea sociale del falansterio, e ponendo l’attenzione al tema della monumentalizzazione della residenza.
Frank Lloyd Wright, partendo da una visione ottocentesca della città e degli isolati, arriva a soluzioni assolutamente pioneristiche, con elevatissimi standard di vivibilità degli appartamenti. Mies van der Rohe si distingue, invece, per l’attenzione al sistema tecnologico, strumento fondamentale per la flessibilità degli appartamenti, nei quali ottiene spazi regolari e ariosi sempre particolarmente eleganti. Sul tema del legame tra spazio e struttura Terragni fonda la sua poetica con l’applicazione magistrale del telaio in cemento armato.
Il limite principale del Movimento Moderno è stato, però, quello di aver tenuta troppo distinta la nozione di serialità con quella di eccezione, attribuendo alla serialità il compito di organizzare gli alloggi, alla eccezione la funzione di riscattare la monotonia attraverso l’uso degli oggetti, dei complementi.
Per reazione si registrano alcune esperienze che vanno da un certo gusto vernacolare per il ritorno ad un’idea medievale di città, ad un neorealismo, sia pure ispirato alle migliori intenzioni.
Con il Postmodern alcune figure si salvano dalla tentazione di un’involuzione regionalista riuscendo a riallacciare un legame creativo con la tradizione del Moderno. E in Italia abbiamo personalità come Aldo Rossi, Giorgio Grassi, Franco Purini che riavviano ricerche serie sul tema della residenza aggregata senza mai separarlo da un discorso critico sulla città. Di spalla a questa nobile sperimentazione, però, nelle nostre città, a partire dagli anni ’70, si iniziano a configurare i casi come Corviale a Roma, e, senza bisogno di saltare il mare, come il Cep di Cagliari. Qui il concetto di residenza collettiva, di residenza aggregata, si deforma nel concetto di condensatore spaziale a grande scala, in contrapposizione alla città storica, alla città circostante, alla città limitrofa, alla città periferica, al concetto stesso di città. Questi interventi (Cagliari sarebbe un concentrato incredibile di esempi su cui fare una tesi di architettura sulle casistiche negative di edilizia residenziale pubblica di quel periodo), sviluppatisi a macchia d’olio, hanno avuto degli effetti sul quadro complessivo della società e della città disastrosi.
La causa qual è stata? È stata la pigrizia culturale. Cessa il desiderio di sperimentare soluzioni innovative. Si ricorre a modelli esistenti senza averli compresi, piegandoli e adattandoli alle logiche del solo parametro della quantità.
Oggi ci troviamo davanti ad una grande sfida: conservare o progredire? Perseverare, attraverso operazioni di imbellettamento di queste brutture, in questa visione limitata e limitante della città, che concepisce le sue parti negative come espressione di logiche separate e contingenti, di funzioni isolate e a sé stanti, davanti alle quali voltare lo sguardo o far finta di cercare di risolvere qualcosa mentre nella sostanza nulla cambia, oppure impegnarsi per il progresso culturale e civile reale che, come insegna la storia, ha sempre fondato le sue basi sulla matrice urbana e architettonica?
La storia ci ha dimostrato che le città di oggi, soprattutto le più belle, quelle più ricche di storia, sono il risultato della sperimentazione degli uomini di maggiore ingegno e dello spendersi degli uomini di potere più coraggiosi. Non tutto quanto è stato fatto è stato sempre il risultato di scelte giuste, ma il progresso esige un certo grado di rischio. Gli strumenti che abbiamo noi oggi a disposizione, tra cui gli esempi e gli insegnamenti della storia, ci permettono di ridurre questi rischi, o di farli relegare sul piano del grado di apprezzamento del gusto e dello stile, ma sempre meno, se utilizzati con buon senso, su quello dei rischi sociali ed economici. Ma a monte va posto il criterio della ricerca della qualità.
Oggi noi abbiamo l’opportunità di portare in avanti le nostre città sarde, e di decidere anche che immagine vogliamo lasciare del nostro passaggio “qui ed oggi”, come in altri momenti hanno fatto altri uomini della storia che si sono accompagnati da grandi architetti, a volte già noti per esserlo, mentre altre lo hanno dimostrato a posteriori grazie a dei mecenati illuminati che hanno creduto in loro.
Noi dobbiamo decidere se vogliamo far grande la Sardegna. Noi dobbiamo decidere se vogliamo pensare in grande. L’architettura, l’urbanistica, le infrastrutture, sono la prima grande testimonianza delle grandi civiltà del passato. Ma la storia non si ferma, è un continuo divenire, e noi facciamo parte della storia. La storia della Sardegna non si ferma, e noi vogliamo dare inizio alla sua storia come Stato. Davanti a questo, c’è una qualche altra sfida che ci può intimorire?
Appena di ritorno da un viaggio in Trentino (dove ho avuto modo di ammirare il fecondo connubio fra edilizia qualitativa ed estetica macroscopica e ancora fra produttività e gestione della risorsa ambientale) mi sono scontrato con la severità del panorama urbano delle nostre città e dei nostri paesi.
Disordine, incompletezza, provvisorietà, che purtroppo manifestano in modo drammatico il senso di disorientamento della nostra società.
Le necessità etologiche dell’animale uomo confliggono con le leggi economiche ed imprenditoriali che non sono proprie della natura umana. In Italia sono determinate necessità mentre in Sardegna sono decisamente differenti e – stante la scarsa densità di abitanti per kmq – è possibile utilizzare modelli urbanistici alternativi e dedicati. Persone professionalmente preparate e con una visione di ampio respiro non possono che dare un contributo strategico alla specificità del nostro sistema chiamato Sardegna.
Ringrazio l’Arch. Millelire per il chiaro e faticoso contributo.
In conclusione cosa dovremo fare? Demoliamo e ricostruiamo tutto? Ma poi per far cosa? Oggi abbiamo uno svuotamento costante dell’isola, una crescita demografica pari a 0, l’oscenita’ architettonica dovuta alla bassa retribuzione di ogni cittafino, labassa retribuzione di ogni cittadino fa si che il livello socio-cullturale – architettonico sia al ribasso. Per investire in bellezza, bisognerebbe investire su un nuovo stato, un nuovo modello economico sociale, che faccia risplendere la bellezza nell’uomo. Un popolo senza Stato è come un popolo senza speranza.