Era passato appena un anno dall’incoronazione ma, nel Regno, le cose non andavano per niente bene. La stagione del declino, iniziata alcuni anni prima, proseguiva inesorabile. Nulla era stato fatto per rallentare la marcia verso il precipizio. Economia disastrosa. Truppe senza paga da mesi. Il popolo sempre più povero, colpito da violenze di ogni tipo. Tanti, troppi briganti a piede libero, protetti da funzionari corrotti, rendevano le strade impossibili e paralizzavano il libero commercio. Artigiani e garzoni, abbandonavano le botteghe andando in cerca di lavoro nelle vicine contee. I pastori ci avevano creduto e ora, delusi, lanciavano al vento parole di rabbia.
Il Re si era chiuso nel palazzo. I suoi grandi limiti lo avevano consegnato nelle mani di cortigiani, furbetti e servili. I banditori, leggevano negli angoli delle vie lunghissime pergamene di giustificazioni per tutto ciò che promesso, davanti a Dio e agli uomini all’atto della cerimonia di investitura, non si era realizzato. Quelle pergamene che portavano sigillo e firma del Re erano una solitaria difesa.
Lanciare accuse a chi l’aveva preceduto, ormai deceduto, non lo aiutava a conquistare considerazione e amore tra i sudditi. Passava, ormai, per esser lamentoso e irresponsabile, per nulla coraggioso. Minacciare chi protestava lo rendeva arrogante, e chiedere agli altri comprensione senza averne mai per nessuno, lo faceva debole.
I Generali, fedeli alla corona e critici verso chi la portava, reggevano per senso dello Stato. Alcuni, però incominciavano a farlo con grande fatica, altri avevano già rassegnato le dimissioni e preparavano i bagagli per tornare a casa. Le nuove nomine non avevano convinto, e il “gran ciambellano” fatto scendere dalla capitale dell’impero, aveva abbandonato, di corsa, l’incarico e i privilegi, pur di non passare per complice, anche dell’impudenza di tanti dignitari e funzionari spregiudicati e arrivisti.
Il “Re” si era genuflesso davanti all’Imperatore, alla prima occasione. Quando il tribunale dei giusti si era espresso a favore dei diritti del popolo i “nuovi dignitari” si erano precipitati a proporre una nuova carta di adesione all’impero. Tutto scritto nero su bianco. Il Regno avrebbe rinunciato ancora una volta alla giusta sentenza e l’Impero avrebbe incassato il contributo di 2 milioni di talleri. Pane quotidiano tolto alle madri e ai figli.
Gli era stato consigliato, così, dai nuovi frequentatori della reggia. “Non importa chi stia seduto nel trono più alto, rinuncia alla cultura patria e alla pretesa di autonomia, abbandona l’orgoglio nazionale, impara la lingua dei forti e recita l’atto di sottomissione. Conquisterai così benevolenza e protezione”. Si sa, quando il tuo è un valore solo apparente, se vuoi resistere ti devi affidare. Questa è una vecchia narrazione che sopravvive indecente anche oggi.
Ma, nulla è eterno in questo mondo. E già sibila il maestrale della ribellione, che nasce come un soffio e si trasforma in un vortice inarrestabile.