Guardiamo con attenzione queste due foto fornitemi da un giornalista.
Ritraggono i parabrezza di due portavalori assaltati in Sardegna, il primo nel Sulcis a maggio, il secondo a Giave pochi giorni fa .Si notano nitidamente i segni dei colpi diretti sul parabrezza di entrambi a altezza del conducente.
Si dirà che chi ha sparato sapeva che il cristallo del blindato può resistere a quel tipo di colpi, ma questo non può mai essere affermato con certezza e, mi spiegano, se per caso i colpi del mitragliatore si concentrassero in uno spazio ridotto, perforerebbero.
Quei colpi segnano un cambio di mentalità.
Non è la stessa cosa avere la determinazione a sparare sul motore di un veicolo o sul conducente. Sono due mondi diversi. Il primo caso è quello dell’universo del ladro, del rapinatore classico, in genere attento a non sporcarsi di sangue; il secondo è quello del criminale senza scrupoli, di colui che ha saltato definitivamente il fosso della legalità e intende raggiungere a tutti i costi i suoi obiettivi di ricchezza e di potere.
Potrei e vorrei sbagliarmi, ma mi pare che ci siano ormai molti indizi di un’evoluzione della criminalità sarda verso le forme, i linguaggi e le movenze di quella organizzata. Se ancora la Sardegna se ne difende, ciò dipende, a mio avviso, dalla bassa densità demografica. Quanti più abitanti ci sono, tante più sono le occasioni per mimetizzarsi e difendersi. Nel poco, anche il niente è visibile.
Mettiamo in fila un po’ di fatti.
La Sardegna è inserita nelle rotte del narcotraffico. Sia che i sequestri di droga che ogni tanto le forze dell’ordine realizzano siano ‘voluti’ e ‘concessi’ per far fare bella figura o che non lo siano, resta il fatto che nell’isola, sia nelle aree urbane che in quelle rurali, il mercato degli stupefacenti fornisce reddito diretto e indotto ormai a migliaia di persone.
La Sardegna è sempre stata inserita nel mercato delle armi. Se c’è una cosa non difficile è procurarsi pistole, fucili e quant’altro.
La Sardegna è sede di riciclaggio. Diversi processi lo hanno confermato e quando le inchieste sono più d’una, significa che il fenomeno è più esteso di quello che sembra.
In Sardegna si muore da secoli per omicidio. Ciò significa che non esiste un capillare sistema valoriale che educhi a una censura forte e difficile da superare sull’azione che toglie la vita a una persona. Si uccide per denaro, per ira, per orgoglio, per invidia e per vendetta, in un contesto che non giustifica mai, ma mai neanche condanna fino in fondo. Puntualmente poi gli assassini vengono consegnati alla giustizia dai loro amici che, avvertendoli come troppo ingombranti, li indicano alle forze dell’ordine. E tutto ricomincia.
Cosa manca a che una banda organizzata passi dal controllo di un’azione al controllo di un territorio?
Manca un modello già realizzato, manca un’esperienza già fatta, manca. Tutto il resto c’è. Non mancano infatti i rapporti tra la malavita e i colletti bianchi, mai entrati in crisi nei secoli e attivi almeno da metà Seicento, dall’età dei bandos iberici. C’è stata una stagione della storia sarda dell’ultimo quarto del Novecento nella quale questi rapporti sono emersi con molta nettezza per poi inabissarsi di nuovo. Ma ci sono. E questi legami sono anche quelli che sulle coste hanno costruito discreti contatti con il mare di denaro della malavita siciliana e calabrese che è sempre alla costante ricerca di ripulirsi e rientrare legittimamente nel sistema economico legale. Anche per questo i segnali vengono dai processi, non dalle indiscrezioni.
Quanto è accaduto a Giave è il segno di un cambio di mentalità. In primo luogo, non so come abbiano fatto taluni a dire che si trattava di giovanissimi. Forse è stato detto perché erano agili? Ma chi li ha visti così da osservarli nel dettaglio se l’area, dalle riprese fatte a distanza, era funestata da fumogeni? Un piano come quello messo in atto, ha bisogno di essere provato. Dove? Dove hanno imparato a sparare con precisione con un mitragliatore? Si dirà: in campagna. Ma anche in campagna i colpi di un AK 47 si sentono. Ma soprattutto: un’azione di quel tipo ha bisogno di un sincronismo e di un coordinamento che necessita di vedere tutto il campo di battaglia e di comunicare simultaneamente con tutti i componenti della banda. Da quale punto osservava la scena il coordinatore dell’azione? Detto tutto questo, resta un punto: fare in quel modo la rapina di Giave significa avere una mentalità criminale molto evoluta, vuol dire avere una logistica sofisticata, vuol dire non temere di essere traditi nonostante si sia numerosi e questo significa che si è certi dei codici comportamentali condivisi, in una parola, avere un vincolo reciproco forte, sia esso il legame col capo o il timore del gruppo. In ogni caso significa essere criminalità organizzata.
Dio ci aiuti.
Per fortuna non sono intervenute semplici pattuglie di carabinieri o polizia, altrimenti avremmo assistito agli ennesimi funerali di Stato e, negli anni futuri, ai soliti tristi riti di commemorazione dei morti in divisa, che di fatto, per me, sono insoportabili celebrazioni delle sconfitte dello Stato.