di Paolo Maninchedda
La Lega, mi pare per la prima volta, ha usato ieri il termine “sovranista”.
Come è noto, la parola è stata coniata in Sardegna, poi utilizzata in varie sigle e in varie posizioni politiche nella penisola, ma mi pare solo ieri, a Firenze, adottata da un dirigente nazionale italiano con un segno totalmente diverso da quello attribuitogli in Sardegna.
Infatti, il sovranismo di Salvini non è altro che un maquillage del nazionalismo della Destra italiana.
La camaleontica destra del Nord, che fino a qualche anno fa parlava di Roma ladrona, ora si fa paladina dell’orgoglio nazionale italiano, antieuropeo, antiglobal, antitutto.
Noi abbiamo sempre avuto un dubbio su questa parola e abbiamo sempre preferito la parola ‘indipendentista’, che ha almeno il vantaggio di dire qual è il progetto politico. Poi anche l’indipendentismo non è, grazie a Dio, univoco: c’è quello democratico e pluralista e c’è quello leninista, c’è quello parlamentare e c’è quello leaderistico-movimentista-dittarial-cubano, c’è quello europeista e c’è quello isolazionista-mediterraneo, c’è quello occidentale e c’è quello post-comunista.
Per questo motivo noi abbiamo spesso accompagnato il termine indipendentista con gli aggettivi ‘europeista, libertario e democratico’.
Quando però comincia la migrazione delle parole da una posizione all’altra, bisogna capire che cosa sta succedendo.
È presto detto.
Chi non ha cervello, copia.
Gli italiani tendono a copiare non per assenza di cervello, ma per pigrizia morale.
Adesso la corsa è a imitare Trump, il vincente.
Quindi tutti vogliono, nell’ordine: trovare le parole giuste per essere razzisti senza sembrarlo poi troppo; trovare le parole per essere sessisti, ma non troppo; pronunciarsi contro le banche e il complotto finanziario massonico-giudaico-planetario che sta affamando il mondo; promettere uno stipendio a tutti; dare tutte le colpe all’Europa, anche del clima; attaccare l’oligarchia politica e finanziaria facendo dimenticare di farne parte; praticare la differenza tra ciò che si promette in campagna elettorale e ciò che si fa al governo.
Il problema è che questa posizione, semplice, facile e comoda, non è univoca in Italia, ha troppi interpreti replicanti. Chi non è contro l’oligarchia politica? Il primo che si dichiara contro è il suo capo, Renzi.
Chi non è contro le banche? Nell’ordine: Grillo, la Meloni, Salvini, Travaglio, tutti i sindacati, tutta SeL, tutti gli anrchici, tutti gli antagonisti.
Chi non è contro l’Europa? Nessuno.
Chi non è contro l’Euro? Nessuno.
Sui migranti l’unica posizione chiara, di accoglienza e solidarietà, è quella della Chiesa. Per il resto si va dall’odio razziale alla politica del transito: ti accolgo per farti transitare, ma vai via in fretta.
Siccome tutte queste posizioni sono prodotte da oligarchi o politici o finanziari che vogliono solo conquistare la guida del popolo, ma non hanno la più pallida idea di come governarlo dopo, l’unico collante positivo che si può dare a quest’accozzaglia di odio e paura, è lo spirito nazionale, è la bandiera, il tanto e retoricamente celebrato tricolore italiano, secondo la tradizione italiana per cui le vergogne non si affrontano, si coprono.
Ne è una riprova il referendum. Renzi adesso gioca la pedagogia della paura. Non riuscendo a dire come intende affrontare l’emergenza Mezzogiorno; non riuscendo a dire come intende far ripartire laproduzione di beni e di ricchezza in modo sostenibile; non avendo uno straccio di ricetta di come poter avere una politica dei redditi nazionale in un mondo che decide il valore del lavoro su scala planetaria; non sapendo come migliorare il sistema educativo (altro che buona scuola!); avendo frainteso largamente il buon governo conla concentrazione di potere; non sapendo come uscire dalle criticità di alcune banche italiane; avendo affidato il sistema della coesione politica a improbabili figure di secondo piano elette a proconsoli territoriali nelle vare aree del Paese; non sapendo in sostanza come si governa uno Stato, adesso dice che se vince il NO arrivano i cavalieri dell’Apocalisse. Schema consolidato dai tempi dei tempi: quando non hai ragione, cerca almeno di fare paura.
In questo quadro veramente disarmante, noi dobbiamo capillarizzare la nostra organizzazione, raffinare la nostra proposta di governo, fondata sulla libertà, sul diritto, sulla sovranità e sull’europeismo solidarista e non oligarchico. Ma dobbiamo fare di più. Dobbiamo decidere se lanciare la sfida, che consiste in una proposta elettorale ai sardi completamente diversa da quelle tradizionali, chiaramente orientata alla conquista della piena sovranità della Sardegna fondata sulle persone, sulla libertà, sulla competenza, sulla difesa dai meccanismi occulti della Rete, sulla cultura, sulla difesa dalla manipolazione delle masse e dalla profilazione degli individui, sulla democrazia, sulla coesione, sui metodi pacifici di confronto.
Non si tratta di unire il mondo indipendentista, tenuto insieme sì dall’amore per la Sardegna, ma diviso dalle diverse concezioni dello Stato sardo. Si tratta di unire i democratici sardi e schierarli su una nuova frontierache parli di futuro, di come si produce ricchezza e lavoro, di come si può fare cultura e istruzione senza dover necessariamente seguire vecchie e insopportabili impostazioni italiche, di come si può essere fortemente sardi ma anche normalmente poliglotti e cosmopliti. Questo dobbiamo fare. Usiamo le nostre parole nutrendole della nostra autenticità: nessuno ce le potrà rubare.
Comment on “Dopo Trump ci tocca la solita ricetta italiana: se non hai ragione almeno cerca di far paura.”
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il sentimento e l’idea di governo dei sardi è già di per sè raffinata, romantica, sostenuta dell’aspirazione di mettere l’uomo nella naturale posizione centrale di un progetto politico in luogo evidentemente delle regole finanziarie ed istituti connessi, della regolamentazione di tutti gli aspetti della vita privata e finanche del diametro della pizza napoletana!! Occorre per tale scopo accrescere la classe politica dirigente e la base che la sostiene.
Ciò che manca in noi sardi, sognatori di un risorgimento politico regionale che si eleva a modello di Stato, è la coesione interna, siamo carenti del collante che unisce gli uomini al progetto e non all’interesse diretto oggigiorno verosimilmente realizzabile con il sostegno a uno o all’altro partito, a uno o altro esponente politico.
Sono prova inconfutabile i numeri elettorali di certuni alle consultazioni elettorali e le referenze che gli sono tributati nei palazzi “governati” dalla politica.
Ecco, quest’aspetto unita alla diseducazione mediatica a preferire colui che è bello per quanto insipido da col’altro brutto ma forse con sale in zucca mi sembrano aspetti diffusi nella massa che scoraggiano i propositi di autodeterminazione per il progetto indipendentista, liberale ed europeista, alla stregua di una qualsiasi costruzione su di un terreno che inghiotte ogni corpo estraneo alla propria conformazione geo-biologica.