Credo di essere uno dei pochi a non poter essere sospettato di avere simpatie per Anthony Muroni, il presidente della Fondazione Monte ‘e Prama. Ne consegue che ho gli anticorpi giusti per parlare dell’inchiesta a firma di Mauro Pili (che è la firma attuale dell’Unione Sarda) sui conti della Fondazione.
Un primo passaggio è il seguente.
Una vecchia amicizia Pili e Muroni erano amici.
Muroni sostenne fortemente la campagna elettorale di Pili contro Soru.
L’Unione e Muroni non si acchiappano, non solo perché Muroni è un ex direttore dell’Unione che ha concluso il suo mandato in modo traumatico, ma anche perché è stato in causa con l’azienda per la vicenda, mi pare, di un infortunio, ma comunque per questioni di lavoro.
Queste premesse storiche vengono spesso omesse, quando si fa cronaca, e affidate alla sola memoria dei lettori. Ma io sono certo che il vecchio Vittorino Fiori, che ebbi il piacere di conoscere e che era più un esperto della vita che della letteratura, non avrebbe affidato a Mauro Pili l’inchiesta sul Monte ‘ Prama, perché troppo implicato con la storia di una delle controparti. Primo Punto fermo.
Il contesto Queste premesse sono utili per contestualizzare i casi, questo come altri, nei quali campagne giornalistiche a forte connotazione negativa hanno poi innescato improvvide indagini, prodotto carcerazioni, sequestri, gogne, frequentemente risoltesi con assoluzioni. C’è poi un dato stilistico: tutte le inchieste di Pili hanno la testa grande (le premesse, l’annuncio, la suspense sulla notizia) e i piedi piccoli, in genere collocati, ovviamente, alla fine de pezzo. Anche questa di oggi non sfugge al modello, per cui per capire dov’è la ‘polpa’ ci si mette un po’, ma ne parleremo. Serve ora una premessa generale.
Nel mondo della cultura, dove l’invidia è la moneta più diffusa e dove in ogni età ci sono tanti highlander che pretendono e esigono di essere gli unici intellettuali degni di questo nome, spesso la polemica politico-culturale è usata per annientare l’avversario o per marginalizzarlo, egemonizzando i luoghi del prestigio culturale: i premi letterari, le trasmissioni televisive, le colonne dei giornali.
Il nostro tempo è ricchissimo di scrittori scadenti assurti, grazie ai media, al ruolo di novelli caronte che, non richiesti, valutano i concorrenti e arricciano la coda tante volte quanto è il numero del girone corrispondente al peccato assegnato come peggior difetto all’avversario di turno. Stretti parenti di questi demoni sono gli engagés, gli intellettuali ‘impegnati’, cioè militanti per una parte o per una persona. L’ultima esperienza sarda di questo tipo, di cui si vedono ancora alcuni tardivi frutti, è radicata nel mondo di Soru, con tutto il corredo di mistificazioni e di deformazioni (alcune iscritte anche in pubblicazioni scientifiche che se avessero avuto una seria peer review non sarebbero arrivate alla pubblicazione) dei profili degli avversari dell’Illuminato.
Stanno lontani da questa mondanità, prepotente e violenta, gli uomini di cultura più miti e più professionali, o quelli che trovano nel loro ruolo ritirato un po’ di conforto, quelli che ancora producono contenuti e non eventi, quelli che prima di omaggiare questi padroni delle vetrine si farebbero tagliare mani e piedi.
Questo mondo libero ha un solo luogo dove andare a cercare due soldi per fare libri e ricerche: non la Regione (divenuta inaccessibile con fideiussioni e rendiconti da pazzi, veramente da pazzi) ma la Fondazione di Sardegna, i cui fondi, giacché tutti battono cassa lì, si stanno riducendo sempre più pur di dare qualcosa un po’ a tutti e tenere in piedi una fonte di finanziamento priva di subordinazioni poco dignitose.
Si deve tenere conto di tutto questo quando si leggono inchieste sulla cultura in Sardegna.
Adesso entriamo nel merito.
Mont’e Prama Nella sostanza Pili denuncia (ma è ragionevole che sia solo la prima puntata) l’affidamento diretto di alcuni eventi a un sistema di società collegate.
Quindi, il problema, sarebbe l’affidamento diretto, nonché la congruità delle cifre all’evento realizzato.
Il tema degli affidamenti diretti è un tema molto scivoloso, che non fa salvi né il Centrodestra né il Centrosinistra né il mondo della cultura che si vorrebbe lindo e pinto.
A fare un lavoro certosino sugli affidamenti diretti delle amministrazioni pubbliche in Sardegna e in Italia, c’è da mettersi le mani nei capelli, ma un dato è certo: è il luogo della vendetta politica. Se un imprenditore non è gradito, o semplicemente sta sul naso, a qualcuno della maggioranza al governo, può star certo che per cinque anni non tocca palla, a differenza del suo concorrente.
Affermato questo criterio, come per l’appunto si è fatto, si è affermata la legge della giungla, per cui gli operatori culturali si sentono costretti a fare lobbing, a cercare accozzi, a fidelizzare l’amministratore di turno, a stare nel giro insomma, pur di sopravvivere. Ne consegue che bisogna fare attenzione alle cause e a non farsi distrarre dagli effetti: la causa è il politico fazioso, l’effetto è l’imprenditore che si adatta.
Diverso è il caso, invece, del funzionario, responsabile di un centro di spesa, che si fidelizza a una impresa e la alimenta con più incarichi sotto soglia. Questa pratica è invisibile al cittadino, ma è più distorsiva del mercato e della cultura di quanto non si pensi. Diversi casi sardi sono stati segnalati all’Anac che è pure intervenuta, tuttavia il confine tra illecito e esercizio della discrezionalità che la legge iscrive sul funzionario responsabile è molto labile.
Infine, abbiamo i casi che riguardano artisti e uomini di cultura che frequentemente fanno parte di istituzioni culturali e poi vengono scritturati, e quindi pagati, dalle stesse istituzioni nelle quali siedono.
Si chiama conflitto di interessi, ma nessuno lo fa notare.
Tuttavia esso ha un che di fastidioso che supera quello per l’imbroglietto politico-amministrativo, perché intacca la pulizia di un mondo, quello della cultura, che sappiamo tutti essere sporco (perché, diversamente, non troverebbe anche la strada per il sublime) ma che non vorremmo così esposto all’eccesso di miseria dell’animo umano.
Un grande tema è poi la valutazione della congruità del valore degli eventi o delle prestazioni alle somme erogate e agli effetti ottenuti. Questo è un tema strategico e scivoloso. Non esiste oggi una parametrazione oggettiva di congruità. Si possono comparare i prezziari per i servizi, ma ponderare gli effetti è veramente difficile, sebbene vi siano sistemi per misurare l’effetto delle campagne di promozione.
Infine, si trovano i rimborsi spese che hanno una loro oggettività a valle, ma hanno anche una loro moralità a monte. Se io decido di presentare un mio libro sulla spiaggia a Bali, sicuramente documenterò spese di viaggio per migliaia di euro, ma il problema è se è giusto, ragionevole e fondato, presentare un mio libro a Bali. Tutto qui.
Adesso possiamo parlare della questione Monte ‘e Prama.
A me pare che essa consista in un distacco tra bilancio di previsione e bilancio consuntivo.
In genere ciò accade o per diminuzione dei ricavi o per aumento delle spese.
È questo che non si capisce dall’inchiesta di Pili ed è invece, a me sembra, il cuore del problema.
Una volta capito questo e compreso come sia accaduto, si può andare a scandagliare quali spese in aumento possano (e non necessariamente debbano) essere considerate non congrue. Isolare, però, tre fatture e spararle come se fossero una prova di colpevolezza, a me pare che non spieghi molto.
Concludo. Sulle spese di fondazioni, premi, iniziative culturali (le peggiori sono quelle realizzate dalle vecchie province, veri porti delle nebbie) bisogna fare chiarezza, ma non con le manette e lo scandalo, con l’intelligenza e il buon senso di chi sa che il problema della cultura è farla e garantire il pluralismo delle voci con la rottura delle egemonie. Poi siamo tutti d’accordo che alberghi di lusso, pranzi, kermesse, brochure e spot andrebbero tutti dimenticati o quasi, sappiamo che servono a una compagnia di giro che non sa fare nulla e va al seguito dell’artista, del letterato o della memoria di qualcuno. Questo malcostume della bella vita sulle spalle della cultura può essere interrotto, laddove individuato e ben compreso, ma non è il cuore del problema. Il cuore, come sempre, è la libertà e ciò che la garantisce.
Io non posso che ringraziarla per questo costante flusso di lucidissime analisi che sforna in questo spazio pubblico.
Nell’era della morte dei giornali, questo è una boccata d’ossigeno più unica che rara.
Che mauro Pili possa imputare a qualcuno lo spreco di pubblico denaro, mi ricorda un po’ il vecchissimo adagio del bue che da del cornuto all’asino.
La presidenza nefasta di mauro pili, pur sorvolando come fu conquistata, fu il punto più squallido toccato in questi oltre 70 anni di autonomia regionale.
Il duo Serrenti – Pili, in quella undicesima legislatura, ne combinò quanto Carlo in Francia.
Voglio ricordarne una per tutte. Era un periodo di siccità in sardegna e nel Sulcis. Nonostante il parere contrario degli enti strumentali della Regione, il presidente Pili aveva deciso di investire oltre 40 miliardi per recuperare le acque di sgrondo delle miniere sulcitane. Chi aveva competenza tecnica e conoscenza dei luoghi, sconsiglio’ l’opera per due semplici ragioni: la qualità dell’acqua non utilizzabile per scopi umani e la incertezza della quantità della risorsa.
Per farla breve, l’acquedotto, a dispetto dei santi e dei fanti, fu eseguito, per essere abbandonato poco tempo dopo per la qualità e inconsistenza della risorsa…..e oltre 4o miliardi del pubblico erario andarono in fumo.