La Nuova Sardegna esce in questi giorni in edicola con una biografia di Francesco Cossiga, scritta da chi lo ha conosciuto molto bene, Pasquale Chessa.
Cossiga è un marziano della politica sarda e italiana, perché era capace di compiere un’azione politicamente giustificata ma moralmente discutibile con un ostentato senso di schifo mascherato da responsabilità della necessità.
Fu il primo e l’unico a capire che il consenso del popolo va immediatamente giocato a conquistare il dominio dei poteri stabili in Italia: Arma dei Carabinieri, Alta amministrazione pubblica, segreti finanziari e sistema bancario. Chi sin dai primi mandati parlamentari si applica a queste campagne di potere invisibili, in Italia può realmente dire di fare politica.
Era capace di essere buono o cattivo, a seconda delle circostanze, con uguale convinzione, senza mentire a se stesso. Aveva un’idea pessimista dell’umanità: di fronte e chi andava a riferirgli qualcosa o a chiedergliela era come un vecchio penitenziere medievale: prima di tutto si chiedeva quale fosse il vizio del questuante e ne ricavava il movente, e di conseguenza valutava la forza e la debolezza dell’interlocutore, poi decideva in quale forma vincolarlo a sé, se lenendone il dolore o accrescendone la pena.
Probabilmente l’unico uomo buono che conobbe fu Moro e la sua morte lo devastò.
La verità sul caso Moro non è stata ancora detta e la conoscono ormai in pochissimi: Moretti, parzialmente Morucci e Faranda, Braghetti, e, forse, brilla ogni giorno di meno in qualche carta conservata in Vaticano.
Tuttavia Cossiga se ne fece un’idea molto chiara, anzi eresse la ricostruzione a posteriori di quei fatti a suo purgatorio personale.
Capì a posteriori di essere stato giocato come un bambino da Andreotti e Berlinguer (che sul caso Moro ha una responsabilità enorme della quale non aveva consapevolezza perché protetto dall’alambicco della sua ideologia).
Senza il dramma Moro, non si capisce nulla del Cossiga picconatore, perché i suoi anni alla Presidenza della Repubblica furono gli ultimi di un Presidente fedele al dettato della Costituzione repubblicana. Quando gli ex Pci cominciarono ad attaccarlo, lui rivide gli anni della campagna di discredito su Leone e, inizialmente, su Moro (chi ricorda più che fino a pochi giorni prima del rapimento Moro veniva indicato da più giornali come il percettore della tangente Lockeed?). La Sinistra italiana fa sempre così: prima isola il nemico, poi lo distrugge moralmente, infine lo ammazza o lo fa ammazzare (politicamente).
Cossiga reagì sia verso gli esecutori (la Sinistra) che verso i mandanti (Andreotti). E qui si giocò una partita molto delicata: Andreotti e Cossiga non potevano scontrarsi in pubblico: ne sarebbe venuto giù tutto il marcio su cui si regge la Stato italiano; alla fine si protessero a vicenda col silenzio reciproco: divennero entrambi senatori a vita. La vittima fu la verità.
Cossiga fu appunto questo: uno che conosceva la verità al punto da non amare moltissimo la natura umana ma anche da avere la certezza che pochi eletti, tra cui lui, potevano guardarla in faccia.
Solo un uomo siffatto poteva inventare la legislazione sui pentiti, che poi fu accorto nel non firmare in prima persona. In fin dei conti il terrorismo di sinistra in Italia è stato sconfitto, oltre che dalla poca intelligenza dei suoi capi alla fine degli anni Settanta (Curcio e Franceschini in carcere volevano una trattativa per essere liberati e magari riparare all’estero, Moretti era convinto di chiamare alla rivolta le masse) soprattutto dal generale Dalla Chiesa (che sapeva moltissimo del sequestro Moro, ma che non fu utilizzato da Cossiga durante il sequestro) e dalla legge sui pentiti.
La legge sui pentiti fu poi alla base di uno scontro durissimo, in Sardegna, tra i magistrati filo-cossighiani a favore dell’utilizzo dei pentiti contro le anonime sequestri e i magistrati tradizionali che intravidero in quella legislazione un’ampia possibilità di abuso. Ma la Sardegna, per lui, era una provincia dell’Impero, un giocattolo, il luogo di residenza degli amici da beneficiare, il luogo nel quale ridere dell’invidia dei rivali politici (tutti disintegrati dal suo potere e ai quali lui rinfacciava la responsabilità di avergli rotto le scatole) e con cui festeggiare per dare sfogo alla vanagloria.
Per lui l’Autonomia era una forma di folklore politico che doveva essere concesso, l’indipendentismo un’eversione tollerabile fino a un certo punto oltre il quale occorreva sempre mettere in moto la solita macchina: Servizi, carabinieri, finanza, stampa, magistrati ecc., fino a ricondurla al tasso di ‘tossicità’ tollerabile (una lezione appresa alla perfezione al punto da essere applicata ormai meccanicamente).
Personalmente non ne avevo e non ne ho alcuna stima, ma era un uomo che a modo suo, poi, ha tentato di dire la verità (a differenza di tanti celebrati intellettuali sassaresi che invece alla verità preferirono o la fama o i soldi). Se si rileggono tutti i suoi libri e tutte le sue interviste si scopre che il più tragico e veritiero ritratto dell’Italia marcia lo ha scritto lui, ma lo ha fatto a pezzi, descrivendo un giorno un pezzo e un giorno l’altro, lasciando agli anni a venire il compito di ricomporre il puzzle.
Egregio Professore,
devo dissentire dalla sua interessante analisi sull’uomo e sul politico Cossiga perchè, a mio giudizio, egli è stato l’ultimo dei grandi uomini politici a credere in un processo di ridefinizione del sistema politico e a considerare il popolo italiano capace di indirizzare il proprio destino costituzionale.
La sua maggiore qualità fu quella di agire con perfetto equilibrio sui piani della mediazione e dell’intransigenza ma restando saldamente ancorato a dei principi che lo collocavano in una posizione politica e culturale avanti con i tempi.
Vorrei rammentarle, Egregio Professore, il lavoro pubblicato nel 1950 dal titolo:” I membri dei condigli regionali godono della inviolabilità parlamentare”; in buona sostanza Cossiga sosteneva che le assemblee legislative nazionale e regionale sono egualmente esponenziali della sovranità popolare, egualmente rappresentative del corpo elettorale.
Non le sembra, Professore, che fin dal 1950 avesse precorso i tempi? Non si ritrova forse, da convinto autonomista, nelle argomentazioni dell’allora giovane studioso Cossiga?
Ancora, a fronte di una classe politica attuale vuota, scialba, rissosa e inconcludente, come non riflettere sull’illuminante osservazione del Presidente in merito alla Costituzione che vede come il risultato dell’interazione tra norme formali, prassi applicative e azione popolare. Cito testualmente: “la caratteristica peculiare degli ordinamenti democratici, prima e più ancora che da un’organizzazione formale degli organi costituzionali, è data da un’effettiva partecipazione della base popolare alla vita dello Stato.
Ritrova qualche politico dei nostri giorni capace di rappresentare degnamente questi concetti?
Ha avuto, a parer mio, il merito di comprendere, primo fra tutti e nel silenzio di tutti, le trasformazioni storiche, politiche e costituzionali del nostro Paese (caduta del muro, tangentopoli, sistema maggioritario, scomparsa dei partiti storici, nascita del leaderismo ) restando inascoltato dai poltronari di palazzo.
Le vicende del Paese, soprattutto quelle più drammatiche ne misero a nudo pregi, difetti e anche debolezze ma non scalfiscono la qualità dell’uomo e del politico di razza; oggi viene da piangere al solo tentativo di accostarlo, oggi, a un qualunque deputato o senatore che occupa gli scranni.
Del resto, Professore, ritiene possibile trovare solo virtù in ognuno di noi figlio di una storia che dall’Unità d’Italia alla Repubblica ha fatto del compromesso l’architrave di sostegno della propria vanagloria.