Le 106 pagine dell’Ordinanza di Custodia Cautelare che ha portato l’arch. Gavino Docche a essere arrestato e tradotto in carcere sono molto diverse dalle tante che ho avuto modo di leggere in questi anni di battaglia con i Baroni Intoccabili della Giustizia, con gli Aristocratici dell’Autotutela di sé, con i magistrati.
È un’ordinanza scritta con molta cura del linguaggio da parte del Gip e con geometria di pensiero; è un’ordinanza attentissima al rispetto delle persone degli imputati; è un’ordinanza che non concede nulla ai sentito dire, alla vox populi e alle semplificazioni (a differenza di altre interamente fondate sulla maldicenza elevata a prova); è un’ordinanza che va per tabulas, sulla base di un’indagine che appare interamente fondata sulle cose (bilanci e atti del Tribunale Fallimentare) piuttosto che sulle parole. Usa pochissimo le intercettazioni e cita solo quelle strettamente pertinenti all’oggetto contestato (la legge dice che i PM dovrebbero valorizzare anche quelle a discolpa, ma non lo fanno mai e se ne catafottono altamente di doverlo fare). Si distingue dalle richieste del Pm (se ho capito bene) perché di cinque arresti richiesti ne concede solo uno.
Dopo averla letta attentamente, la domanda sorge spontanea: perché Docche è stato messo in galera?
Il Gip lo spiega con queste parole, quasi contrite: «L’indagato non ha interrotto i propri contatti con le istituzioni pubbliche preposte al rilascio dei permessi amministrativi (il fallimento di Sviluppo Olbia Spa non è chiuso e il resort Geovillage non è stato venduto, opponendosi a ciò il Cipnes – come accertato in fatto anche dal Tribunale del Riesame di Sassari – il quale per venti anni ha collaborato con Docche Mario Gavino in relazione al resort a lui affidato ecc. ecc.)».
Mentre si capisce la tesi del Gip circa la necessità di separare l’arch. Docche dai suoi familiari (ma per far questo esistono mille provvedimenti alternativi alla custodia cautelare in carcere), in quanto coinvolti nelle sue società, meno chiara è la necessità di separarlo dal suo ambiente. O meglio: è molto chiaro che Docche viene tradotto in carcere per separarlo dal suo ambiente. E di questo ambiente, quasi ne fosse il fulcro, viene citato espressamente solo il Cipnes (ma ci sarebbe da chiedersi, anche, come mai il Tribunale Fallimentare che ha decretato i fallimenti delle società di Docche non abbia mai guardato complessivamente a questi fatti, come solo oggi hanno fatto Procura e Gip).
Su questa scelta si impongono alcune domande: che cosa è realmente il Cipnes agli occhi di investigatori e magistrati? È un banale consorzio di servizi (ma non lo è, posto che gestisce anche ristoranti, negozi di alimentari, predisposizione di cesti natalizi ecc.) o è una camera di compensazione di interessi e di forze? E se la risposta del palazzaccio di giustizia a quest’ultima domanda fosse positiva, ve n’è un’altra a seguire: si ritiene davvero che restringere un uomo ritenuto molto abile e informato in carcere sia il modo migliore per separarlo dal suo ambiente? Non si riesce a immaginare che questo è invece il modo migliore per esporlo al suo ambiente?
Se si vuole illuminare un ambiente, l’ultima cosa da fare è far paura ai deboli o a chi lo è diventato, ma questo chi non legge le storie dei carcerati e delle carcerazioni non lo sa. Non sa che la paura è la compagna naturale della malattia e poi del peggio. Non sa che la paura è da sempre nemica della verità.
La Mafia è stata sconfitta quando un uomo, cui la polizia brasiliana aveva invano fatto vedere la moglie sospesa per i piedi da un elicottero per farlo parlare (e stette più zitto di prima), incontrò un altro uomo che lo rispettò.
Se si vuole, anche a ragione, vedere dentro gli equilibri che si immaginano illegittimi (perché in quelli legittimi la magistratura non ha alcun diritto di mettere il naso) di un territorio; se si vuole illuminare una storia, servono quattro cose: coraggio (e in giro ce n’è veramente poco, basti vedere la vicenda del Piano Mancini); imparzialità; intelligenza e dignità; non certo manette e paura.
No, e io non posso divulgarla perché l’indagine è in corso. Potrei pubblicarne stralci, ma la sostanza è quella che ho descritto. Mi spiace.
Professore ma è possibile reperire online queste 106 pagine dell’ordinanza?