di Antonio Succu
Per parlare di sistema carcerario sardo, prendo spunto da un fatto importante avvenuto lo scorso mese, ossia le dimissioni di Don Ettore Cannavera da Cappellano del carcere minorile di Quartucciu. Michele Piras, deputato di SEL, ha giustamente evidenziato che le dimissioni di Don Ettore sono da considerarsi, in tutta la loro importanza, un atto di accusa verso il sistema carcerario italiano, poco propenso alla finalità rieducativa e di recupero del detenuto e, aggiungo io, di vago stampo coloniale. Il tutto è ancor più sconcertante, sottolinea Michele Piras, quando lo stesso accade per i minori. Non credo che nessuno possa obiettare su queste affermazioni.
Per dire il vero non mi ero mai occupato di carceri fino a circa due anni fa, quando son stato investito, da Sindaco e da cittadino, del problema “rischio chiusura carcere di Macomer”, considerato una struttura “modello” non solo sotto il profilo della sicurezza ma soprattutto sotto il profilo dell’umanizzazione della detenzione, requisiti difficilmente riscontrabili contemporaneamente negli istituti di pena. Vi lavorava personale di grande competenza che in equipe produceva un risultato rieducazionale di livello, ma la solerzia del DAP ha concretizzato la chiusura con un decreto ministeriale intriso di “inesattezze”, per utilizzare un eufemismo, rivelatesi però letali per le sorti della struttura. Evidentemente per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), ma a questo punto anche per il Ministero della Giustizia, la migliore economicità dei grandi istituti penitenziari, tutta da dimostrare, è più importante dell’aspetto rieducativo e di recupero sociale del detenuto.
La vicenda relativa al percorso di chiusura del carcere nella mia città, in cui peraltro sono state investite ingenti risorse pubbliche negli anni, diversamente da quanto mi pare non sia successo a Quartucciu, mi ha portato, nel tentativo di non vanificare risorse umane e professionali, di non vanificare investimenti e indotto per la città, a verificare l’utilità reale della struttura nel contesto del sistema penitenziario sardo, ed è così che sono arrivato a documentarmi su un’altra condizione detentiva importante sotto il profilo umano, quella sanitaria.
Non è facile raccogliere notizie nemmeno in questo ambito del pianeta penitenziario, ma chiedendo qua e là un’idea me la son fatta. Certamente con il passaggio recente delle funzioni specifiche dalla medicina penitenziaria al sistema sanitario regionale la situazione assistenziale dovrebbe essere, in teoria, migliorata, anche se risultano ancora troppi spazi di discrezionalità, anche nel garantire gli standard minimi. Io credo che un’attenzione continua da parte dell’assessorato regionale competente sia opportuna, non solo per ridurre gli ambiti discrezionali dei funzionari ASL competenti, ma anche per introdurre sistemi di verifica su una popolazione, quella carceraria, che difficilmente riesce ad aver voce su ciò che non va.
È vero che molti detenuti in Sardegna non sono sardi, ma siamo tutti figli di Dio, compresi i peccatori.
Sempre chiedendo qua e là, ho anche focalizzato un problema carcerario la cui rilevanza va oltre l’aspetto sanitario, investe la sfera sociale extracarceraria e potrebbe riguardare anche la gestione dell’ordine interno agli istituti di pena. Mi riferisco alla tossicodipendenza all’interno delle carceri. Ho posto la domanda ad alcuni operatori: qual è l’approccio verso questa tipologia di detenuto? Mi è stato risposto: metadone, sostituti delle droghe e psicofarmaci. Perché moltissimi detenuti hanno una doppia diagnosi, ossia sono tossicodipendenti ma anche affetti da disturbi psichiatrici, e rappresentano spesso i cosiddetti “detenuti difficili”, magari a maggior rischio di autolesionismo, nelle varie forme possibili, fino al tentativo di suicidio o di suicidio vero e proprio. Non ho dati certi, ma qualcuno stima la popolazione carceraria tossicodipendente intorno al 30/40 % del totale.
Un dato è certo, che in carcere il detenuto tossicodipendente viene curato per i sintomi della patologia ma non per il recupero sociale e la liberazione dalla dipendenza, tanto che finita la detenzione, solitamente, non tarda a rientrare nella stessa o in altra struttura carceraria, dopo aver ricompiuto reato nell’illusoria riacquistata libertà. Quanto costa questo in termini umani, sociali ed economici?
Partendo da questi presupposti, vista la possibilità di mettere in campo dei protocolli di intesa fra Ministero della Giustizia, Tribunale di Sorveglianza, Regione Sardegna e Anci Sardegna, si può integrare uno dei tanti protocolli già approvati sul territorio italiano che però tenga conto del problema tossicodipendenza/carcere.
Basti pensare ad un solo articolo tutto orientato alle “misure finalizzate al recupero ed al reinserimento di detenuti con problemi legati alla tossicodipendenza”.
Si tratta di dare piena attuazione ai principi sottesi alla normativa vigente in materia di tossicodipendenza primariamente rivolti alla riabilitazione ed alla risocializzazione dei soggetti con diagnosi di dipendenza, anche attraverso specifici programmi di recupero, in cui le parti si dovrebbero impegnare reciprocamente ad applicare quanto previsto dalla Legge Regionale 7/2011 art. 5, una legge emanata dal Consiglio Regionale Sardo e finora rimasta sulla carta.
Certamente bisognerà favorire la collaborazione fra i servizi dei soggetti sottoscrittori, Aziende Sanitarie e Ospedaliere – Dipartimenti della Salute Mentale e SERD, ed Uffici di Esecuzione Penale Esterna, e gli ulteriori servizi del territorio deputati all’accoglienza dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria per la predisposizione dei percorsi finalizzati al reinserimento sociale.
Risulta evidente la necessità di individuare congiuntamente, nell’ambito della collaborazione interistituzionale, i soggetti tossicodipendenti potenzialmente idonei all’inserimento nell’ambito di un percorso terapeutico.
In questo modo si potrà trasformare la detenzione dei soggetti tossicodipendenti o affetti da altre dipendenze patologiche in opportunità di cura e riabilitazione per un più agevole reinserimento sociale.
La predisposizione di un apposito piano regionale finalizzato alla definizione delle modalità e delle prassi operative anche per favorire l’applicazione delle misure alternative, consentirà l’attivazione di percorsi terapeutici rivolti alla popolazione detenuta che presenti tali problematiche.
In questo contesto si potranno individuare strutture carcerarie, anche dismesse o in fase di dismissione, che per le loro dimensioni e caratteristiche possano riacquisire una funzione detentiva da associarsi a specializzazione e maggiore intensità di cura e riabilitazione delle dipendenze patologiche.
Viene da se l’alleggerimento delle strutture carcerarie di maggiori dimensioni dai “soggetti di difficile gestione” ossia da quella parte significativa di popolazione carceraria che in ragione della sua condizione di tossicodipendenza, spesso correlata ad un disagio psichiatrico, crea una condizione di rischio e disagio all’interno degli istituti di pena.
Sarebbe opportuno istituire almeno una “struttura alternativa” agli ordinari istituti di pena che sia a “metà strada” tra un istituto di custodia attenuata ed una comunità terapeutica per soggetti in doppia diagnosi.
Di fatto si vorrebbe consentire al detenuto con doppia diagnosi di migliorarsi durante e attraverso l’esecuzione della pena, preparandolo al rientro nella società libera, anche con passaggio attraverso la comunità terapeutica e il reinserimento lavorativo.
L’obiettivo sarebbe quello di superare la sola assunzione di metadone e di terapia farmacologica psichiatrica, che dopo la riacquisizione della libertà sfociano nell’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope o condotte devianti, che comportano un’alta possibilità di ritorno in carcere. Con reali percorsi di opportuno trattamento, con i percorsi psicoterapeutici, la terapia di gruppo e individuale, i gruppi di auto e mutuo aiuto, i percorsi finalizzati alla ricostruzione della personalità e delle motivazioni spesso distrutte o mai cresciute si potrà chiudere un ciclo virtuoso di recupero e inclusione sociale.
Certamente la Regione Sardegna si dovrà impegnare ad adottare misure idonee a garantire il pieno utilizzo delle potenzialità recettive delle comunità, anche di tipo terapeutico ed al loro potenziamento al fine di ospitare persone che al termine della detenzione necessitino del completamento dell’iter terapeutico e riabilitativo o persone agli arresti domiciliari o in misura alternativa nelle stesse condizioni.
Va da se che la Regione Sardegna, dovrà impegnarsi per il tramite dell’Assessorato Regionale Igiene e Sanità a porre in essere le riorganizzazioni necessarie nei SERD territoriali e nei Dipartimenti della Salute Mentale, adeguandoli alle mutate esigenze socio sanitarie.
Oltre alla condivisione del progetto, il Ministero della Giustizia, per il tramite del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e della sua articolazione regionale (PRAP), dovrà impegnarsi in totale continuità con le prassi contemplate dalla normativa vigente e da tempo adottate, a non inserire in provvedimenti di trasferimento i detenuti individuati per l’inserimento comunitario, fatte salve eccezionali motivazioni, ed a potenziare, anche con il contributo della Cassa Ammende, progetti condivisi con la regione Sardegna e con gli enti territoriali finalizzati alla realizzazione di quanto proposto.
Risulterà certamente opportuna la sinergia con il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari per la fissazione delle udienze sulla trattazione dei casi, analizzando con carattere di urgenza le istanze per le quali sia già predisposto specifico programma terapeutico, prevista e verificata la possibilità di ingresso in comunità terapeutica.