di Paolo Maninchedda
È un libro piccolo, tascabile, un breviario. Si intitola Caro Umberto, Sergio carissimo. Riporta il piccolo epistolario inedito tra l’europarlamentare comunista Umberto Cardia e Sergio Atzeni, lo scrittore che ha inaugurato una nuova stagione della narrativa sarda e nella cui solitudine e libertà mi sono sempre ritrovato: c’è gente nata per non dividere il proprio cuore con nessuno e per amare tutti. Atzeni era così e ha aiutato tanti di noi a non cedere ai fantasmi dei nostri tempi, a saper tenere il cuore a posto, a non precipitare nell’abisso della ricerca di un senso che manca sempre totalmente, ma è sempre presente parzialmente.
Le lettere cadono su due confini speciali, uno storico e uno individuale: la fine del Pci e la conversione al cristianesimo di Atzeni. In mezzo sta il celebre articolo di Cardia su Gramsci (Per Gramsci fu fatto tutto?), pubblicato con inutili censure dall’Unità il 24 febbraio 1988. Il 3 febbraio 1991 finiva il Pci.
L’edizione è curata da Giuseppe Marci, amico carissimo di Atzeni e genero di Cardia, che in calce all’epistolario pubblica un lungo saggio intitolato: Sergio Atzeni e la scuola del PCI, dedicato a cinque compagni con cui Marci ha condiviso giovinezza e comunismo. Un saggio che è una lezione di come si possa amare ed essere severi, con se stessi e con gli altri; un pellegrinaggio sulla fine del comunismo, ma anche sul comunismo italiano, fatto da chi l’ha amato profondamente. Il tema è semplice e grande: è lo scontro tra desiderio, libertà e cultura da un lato, potere e organizzazione dall’altra, tema antichissimo che però qui è innervato della vita di singoli, delle loro ambizioni di libertà, di cambiamento, dall’intrecciarsi di delusioni storiche e personali, della comune e distinta ricerca di senso. Il fantasma dello stalinismo e di ogni forma di autoritarismo aleggia in tutto il testo come il vero avversario individuato dalla generazione di Atzeni.
Ho conosciuto lateralmente la scuola del PCI, o meglio, ne ho conosciuto marginalmente la proiezione universitaria, proprio in quegli anni e oggi ne capisco aspetti allora per me incomprensibili. La Facoltà di Lettere di Cagliari aveva due radici ideologiche negli anni Ottanta: una massonico-repubblicana e l’altra comunista. Io e pochi altri non eravamo né l’una né l’altra cosa e, soprattutto, non sapevamo che cosa eravamo. Erano anni in cui era facile perdersi. C’è anche chi è finito in Africa a cercare di capire se stesso e non ha trovato risposta. Era un tratto comune a tanti. Eravamo le generazioni in fuga: da noi stessi, dalla famiglia, dalla violenza, dall’impegno, dal dolore, dalla stabilità. Chi ha letto Il quinto passo è l’addio sa che cosa eravamo. Ci salvò lo studio, l’amore e la fede, chi quella religiosa, chi quella politica. Il libro di Marci le intreccia entrambe. Le lettere di Atzeni parlano degli emigrati in Lussemburgo e, contemporaneamente, citano i bei versi di santa Teresa d’Avila, conosciuti da Atzeni nella versione cantata dall’indimenticabile Giuni Russo:
nada te turbe, nada te espante,
quien a Dios quiere, nada le falta,
nada te turbe, nada te espante,
solo Dios basta.
Leggo solo ora. Commovente. Grazie. Antonio