Oggi La Nuova Sardegna rende omaggio a Antonio Pigliaru con quattro articoli e una impaginazione bella e di alta leggibilità. Si capisce nettamente perché lo fa: i testimoni diretti del suo magistero stanno progressivamente scomparendo e il tratto metodologico del suo operare accademico e militante, cioè il dialogo, da un lato, e la sistematicità del pensiero dall’altro, sono quanto mai utili attualmente almeno quanto non praticati.
Ciò che manca, però, è il debito filosofico di Pigliaru verso Gentile che, a leggere le sue opere, è notevole e evidente. Se Virgilio Mura, da par suo, pone in campo in modo egregio il tema più importante della riflessione di Pigliaru, cioè il rapporto tra individuo e autorità, quel che resta sullo sfondo è che cosa era lo Stato per lui, che cosa era la storia e che cosa è l’uomo rispetto a entrambi. E se è verissimo che il suo rapporto con Bobbio lo colloca in relazione con una figura imponente (che chiamava gli intellettuali a evitare da un lato l’apoliticità e dall’altro il politicismo), è anche vero che il suo sforzo di sprovincializzazione della Sardegna avviene secondo un’architettura concettuale di stampo post-idealista, come risulta a mio avviso evidente dal suo saggio sull’eredità di Gramsci.
Pigliaru fu realmente il maestro di due generazioni di uomini politici sassaresi con una visione, a mio avviso, conservatrice dello Stato, cioè con una propensione a:
1) non riflettere sulla natura del potere e delle sue strutture quanto piuttosto a impegnarsi nel discorso dell’uso del potere per la realizzazione di programmi politici;
2) a non riflettere sulla storia e sulla storiografia italiana e sull’estensione ideologica e retroattiva dei confini attuali dello Stato italiano a tutti gli eventi e le culture che si sono manifestate attive in quel territorio prima che l’ordinamento italiano lo dominasse (è per questo motivo che il segno dominante della Sardegna per lui era l’arcaicità). Entrambe queste propensioni hanno inciso moltissimo sulla facies della politica sassarese e su molti uomini di potere del capoluogo turritano.
Mi sono spesso chiesto, a partire da quando negli anni Ottanta mi occupai filologicamente delle carte del caso Moro, che cosa avrebbe suggerito Pigliaru, se fosse stato vivo, a Cossiga e Andreotti dinanzi al dilemma se trattare oppure no con le Br per liberare il Presidente della Dc. L’idea che me ne sono fatto è che la sua umanità avrebbe trattato, la sua cultura dello Stato non lo avrebbe fatto, perché mentre l’unica esperienza umana intimamente praticabile è quella del singolare, in Pigliaru si nota la prevalenza del plurale e del plurale organizzato, che è lo Stato. Resto convinto che se l’Essere è la storia, come si diceva un tempo, aveva ragione Leopardi ad affermare che viviamo in un indegno e volgare tritacarne cosmico; se l’uomo è più della storia che vive e in cui vive, allora c’è speranza. Ma queste riflessioni sono inattuali, perché la vera eredità svanita di Pigliaru è la consapevolezza della complessità dell’uomo e il dovere di capirla.