Fine dell’incubo Con l’entrata in vigore dell’allegato I del Regolamento 605 della Commissione Europea, circa l’80% dei comuni sardi saranno “sdoganati” dalle restrizioni collegate alla PSA e, quindi, gli allevatori di suini potranno finalmente spedire oltre Tirreno le carni e i prodotti trasformati.
Questa situazione rappresenta una svolta epocale per la nostra isola, ma anche un’opportunità sconosciuta e piena di incognite, giacché una restrizione così prolungata (dal 1978 sono passati oramai 44 anni) ha escluso un’intera generazione di allevatori da un percorso di crescita che altrove è andato avanti e ha visto consolidare e affinare tecniche commerciali e di produzione che per noi oggi sono molto distanti e difficili da conquistare.
Ma andiamo per gradi.
Un po’ di storia Era noto, tra gli esperti del settore che il problema della presenza endemizzata della PSA era, in larga parte, determinata dalla diffusa pratica (soprattutto in alcune zone della Sardegna caratterizzate dalla presenza di vaste aree di territorio a uso civico) dell’allevamento brado illegale e dalla conseguente commistione di questi animali con la popolazione selvatica.
Questa consapevolezza è rimasta, per lungo tempo, senza una risposta attiva da parte delle istituzioni nazionali e, soprattutto, regionali: in pratica nessuno aveva la volontà politica di affrontare una piaga così diffusa e con forti implicazioni sociali ed economiche: meglio fingere che il virus della PSA fosse invincibile e accettarlo come un destino inevitabile (anzi, per superare il problema, qualcuno pensava che se avesse varcato il confine della Sardegna per diffondersi nella penisola sarebbe diventato endemico in tutta Italia e non ci sarebbero stati più vincoli).
Per molti anni (in estrema semplificazione) l’unica politica di contrasto è stata quella di distribuire, a pioggia, indennizzi e contributi, nella speranza che la diffusione della malattia si autoestinguesse da sé: speranza vana, la presenza della malattia, col conseguente annichilimento dell’intero settore suinicolo, tra momenti di vera e propria pandemia e fasi di stasi, è arrivata a compiere i quarant’anni.
A cavallo tra il 2012 e il 2014 si registrarono oltre 150 focolai ogni anno, raggiungendo uno degli apici della diffusione virale.
La lotta della Giunta Pigliaru Nel tentativo di affrontare in modo radicale questa autentica piaga biblica, l’allora Presidente della Regione Pigliaru, con il sostegno forte dell’Assessore Arru e di tutta la Giunta, ritenne necessario varare un programma pluriennale basato sulla esperienza di coloro che, a vario titolo, si erano occupati della PSA e, soprattutto, sul supporto di esperti internazionali (su tutti, José Manuel Vizcaino: uno dei protagonisti della eradicazione della PSA in Spagna).
L’aspetto più interessante e innovativo che emerse da questi confronti fu il fatto che la presenza della PSA non poteva essere trattata come un “problema” di medicina veterinaria da affrontare con le modalità tipiche di una zoonosi qualsiasi. Il fatto che la stessa presenza del virus fosse intimamente collegata alla presenza dell’allevamento illegale nei terreni ad uso civico, implicava forme di intervento molto più radicali e articolate nei territori, andando a intaccare usi e costumi inveterati e connessi con il controllo del territorio.
Da questa presa di coscienza, nacque l’idea di istituire una struttura operativa, una Unità di Progetto (UdP) che mettesse insieme, per la prima volta nella storia della lotta alla PSA, a lavorare di concerto sullo stesso obiettivo, diverse strutture dell’Amministrazione regionale (con competenze molto diversificate, ma tutte necessarie all’attuazione di un programma così ambizioso), quali gli Assessorati della Sanità, dell’Agricoltura (con le sue Agenzie), dell’Ambiente, del Corpo Forestale, dell’Agenzia Forestas e dell’Istituto Zooprofilatico della Sardegna. Questo nucleo centrale, di stretta competenza regionale, diventava l’unico interlocutore istituzionale sia per i livelli nazionali (Ministero della Salute e Centro nazionale di referenza per la PSA, ma anche Prefetture e Questure) che per la Commissione Europea.
L’aspetto ancor più innovativo e “dirompente” rispetto al passato fu che l’UdP, attraverso il suo Responsabile, venne dotata, in forza della Legge regionale n.34 del 2014, dei necessari poteri di coordinamento (tutte le strutture regionali in materia di PSA erano gerarchicamente sotto-ordinate all’UdP) e, soprattutto, dei poteri commissariali nei confronti delle amministrazioni comunali inadempienti sulle misure di contrasto e profilassi.
Un altro aspetto innovativo nell’approccio al problema fu quello di coinvolgere il mondo venatorio, attraverso le sue associazioni, per promuovere un’azione di informazione sulla PSA nei cinghiali (l’Agenzia LAORE dal 2015 ad oggi ha organizzato corsi per oltre 6.000 referenti cacciatori), stabilire regole stringenti nella trattamento degli scarti delle carcasse (divieto di dispersione in aperta campagna e obbligo di smaltimento controllato), ma soprattutto l’organizzazione di una imponente raccolta di campioni di sangue e milze per una indagine epidemiologica di dimensioni mai raggiunte in Europa (oltre 10.000 campioni trattati ogni anno), consentendo un controllo capillare dell’andamento della presenza del virus nella popolazione selvatica.
L’azione si concentrò principalmente nei territori di alcuni comuni ove più diffusa era la pratica dell’allevamento brado illegale e portò all’abbattimento di circa 5000 capi.
Grazie a questi interventi di depopolamento a partire dal 2018 non furono più riscontrati, nemmeno nella popolazione selvatica, animali virus-positivi: segno inequivocabile che il serbatoio di animali infetti in grado di alimentare la diffusione della malattia era stato eliminato: un successo straordinario che aspettava solo di essere consolidato, per essere riconosciuto a livello nazionale ed europeo.
Nuova Giunta regionale Nel 2019 però, col cambio alla guida della Regione, la lotta alla PSA subisce una battuta di arresto.
L’eradicazione della PSA non è più una priorità del nuovo governo regionale.
Si interrompono gli abbattimenti, l’Unità di progetto viene emarginata e si torna a gestire la lotta alla PSA come una delle tante tematiche rimbalzanti tra strutture sanitarie regionali e nazionali.
La Legge Regionale del 2 agosto 2018, n.28, nata per accompagnare il comparto nella ripartenza, viene accantonata e svilita nei contenuti e nelle risorse.
La propaganda elettorale che aveva irresponsabilmente e strumentalmente appoggiato le fazioni che si opponevano agli abbattimenti portò a una totale paralisi e quindi, quando si era pronti a “passare all’incasso”, l’assenza di interlocutori politici interessati alla tematica e l’ingresso nell’UdP di nuovi attori privi di esperienza, determinò il blocco dell’iniziativa sia sul terreno del contrasto attivo che su quello delle interlocuzioni con i livelli nazionali ed europei per ottenere il pieno riconoscimento della fine dell’emergenza.
Fine dell’incubo? E arriviamo ai nostri giorni e ai proclami sulla fine dell’embargo dei prodotti suini sardi.
Abbiamo detto che dal 2023 sarà possibile esportare, dall’80% dei territori sardi, gli animali vivi, macellati e i prodotti trasformati da essi derivati.
E qui emerge, in modo lampante, l’assenza della necessaria conoscenza del comparto suinicolo e la vacuità di entusiastiche affermazioni.
Qualche considerazione:
- I numeri che la Sardegna oggi (minimo storico) può vantare in termini di produzione di suini (siamo vicini ai 100.000 esemplari allevati) sono irrisori, se confrontati con le produzioni nazionali, che contano oltre 8 milioni di capi (per es. nella sola provincia di Brescia si allevano circa 1,4 milioni di capi);
- Salvo alcune eccezioni, concentrate soprattutto in alcune aree del Medio Campidano, si allevano animali eterogenei, di dubbio valore commerciale, con indici produttivi scadenti per prolificità, capacità di conversione degli alimenti ecc.
- Il 20% dei territori interdetti rappresentano, in gran parte, le aree che nell’immaginario collettivo vengono considerate il luogo d’elezione per la produzione del caratteristico suinetto da latte che (a parte i pochi prodotti trasformati) è l’unico prodotto fresco esportabile (a meno che qualcuno, dati i numeri di cui sopra, non voglia coprirsi di ridicolo pensando di voler commercializzare fuori dalla stessa Sardegna suini da carne).
Il suino è un animale straordinario e rappresenta da sempre, in tutto il mondo, una fonte importantissima di carne. Non esiste nessuna altra specie animale in grado di convertire gli alimenti in modo tanto efficiente, basti pensare che una scrofa di 150 kg può facilmente arrivare a produrre 2000 kg di carne all’anno, livelli irraggiungibili per le altre specie. Con questi numeri è comprensibile ciò che sta vivendo tutta la popolazione mondiale per il diffondersi della nuova variante di PSA, molto più aggressiva della sarda, che ha colpito molti paesi europei e asiatici.
Paradossalmente, la Sardegna, da sempre considerata un pericolo per tutti oggi, grazie agli interventi effettuati, è andata controcorrente e può essere presa ad esempio e guardare a questa situazione come ad una opportunità.
La consistenza del comparto suinicolo sardo secondo l’Istat, dal 2010 ad oggi, si è ridotta della metà, passando dai circa 238 mila capi ai 118 mila del 2021. I riproduttori di razza sarda iscritti ai libri genealogici sono passati dal 2015/2017 dai circa 2000 capi agli 80/100 di oggi e anche se secondo altri conteggi i numeri totali sono più ottimistici (alcuni parlano di circa 150 mila capi totali) la sostanza non cambia.
Un comparto abortito Bisogna avere il coraggio di dire le cose come stanno: in termini economici di impresa, il comparto suinicolo sardo praticamente non esiste.
La Sardegna, malgrado le trionfalistiche dichiarazioni dello sblocco alle esportazioni, allo stato attuale non è in grado di presentarsi sul mercato esterno, perché non ha niente da vendere.
Si arriva quindi al momento tanto atteso impreparati, con pochi animali e perlopiù inadatti alla commercializzazione.
I prodotti più ricercati e che hanno prospettive interessanti di mercato sono il tradizionale suinetto da latte e i prosciutti.
Purtroppo sia il suinetto da latte, che rappresenta la produzione più conosciuta e apprezzata dai mercati, e che maggiormente caratterizza le nostre produzioni, proviene, come i prosciutti più rinomati, in buona parte dalle aree che restano interdette alle movimentazioni. Anzi, gli allevamenti che operavano in queste aree e che più di altri hanno subito la pressione causata dagli interventi di depopolamento, mentre prima potevano commercializzare almeno all’interno di tutta la Sardegna e avevano libero accesso ai mercati più importanti dell’isola, oggi si ritrovano chiusi in un “recinto” ristrettissimo.
Al danno economico in queste aree si sovrapporrà un profondo senso di sfiducia anche in coloro che, malgrado tutto, erano consapevoli che l’unica strada percorribile era appoggiare l’azione, anche forte, dell’UdP.
Inoltre, l’approccio palesemente poco motivato alla lotta alla PSA dell’attuale maggioranza regionale, unita alla tipica abitudine, tutta sarda, che “ciò che stato fatto da chi ci ha preceduto è sempre sbagliato” ha, via via, vanificato gli sforzi fatti e ha facilitato, con l’interruzione del rigoroso progetto iniziale dell’Unità di Progetto, il ripopolamento di quelle aree che erano state liberate dagli animali illegali, dando giustificazione al Ministero della Salute e alla DG Santé della Commissione per non liberalizzare l’intero territorio della Sardegna, come i dati epidemiologici oggettivi, avrebbero consentito.
Ci si può salvare? Ci si chiede allora se, e come, sia possibile recuperare la situazione.
Innanzi tutto è necessario che le autorità regionali esigano una revisione immediata delle prescrizioni applicate alla Sardegna e costringano la Commissione a dare giustificazione del perché di queste scelte: sulla base dei dati epidemiologici disponibili non esiste un motivo valido, né scientificamente né giuridicamente, che le supporti.
Si deve far valere, in ogni sede, lo straordinario successo ottenuto e assumere, soprattutto nei rapporti con il Ministero, un atteggiamento meno supino e accomodante.
La Sardegna deve essere dichiarata indenne tutta, senza eccezione alcuna.
Poi è necessario riprendere una politica attiva e di sostegno del comparto suinicolo sardo (per es. rifinanziando la L.R. n.28/2018), per farlo crescere e sviluppare: in assenza di un forte segnale in tal senso, ogni velleità di presentarsi sui mercati esterni è solo l’ennesima presa in giro nei confronti degli allevatori e del comparto.
Bisogna avere una strategia di approccio al comparto per poter immaginare possibili interventi che favoriscano la crescita.
È corretto pensare che la razza autoctona sarda possa essere attrattiva a scopo commerciale, così come è avvenuto in Spagna, dove i suini autoctoni contribuiscono, seppure in percentuale molto bassa, alla produzione del famoso prosciutto Pata negra, mentre il grosso della produzione proviene da incroci con più comuni razze bianche da carne, più produttive e redditizie per gli allevatori. Quindi in Sardegna si potrebbe fare la stessa cosa e cioè incentivare un efficace programma di miglioramento genetico della razza sarda in purezza col coinvolgimento delle agenzie regionali e, allo stesso tempo, favorire l’incrocio di questi animali con razze più prolifiche e produttive. In questo caso potrebbero concretizzarsi anche le condizioni per lanciare definitivamente il suino di razza sarda che troverebbe finalmente una sua collocazione, se inserito in un serio programma di miglioramento genetico e di incroci, condizione indispensabile per adeguare il suino autoctono a canoni produttivi moderni, scongiurando il pericolo di perderlo.
Ovviamente il tutto andrebbe accompagnato dalla realizzazione di infrastrutture di supporto come i centri per la Fecondazione artificiale per la produzione di seme e i centri di moltiplicazione Gran parentali per la produzione di scrofe da rimonta (magari da vendere anche fuori dall’Isola).
Tutte queste iniziative, tra le altre, costituivano la base della legge 28 del 2 agosto 2018, nata per supportare un “percorso di graduale rilancio delle attività ad esso collegate” e che all’articolo 2 si proponeva testualmente) di consolidare le buone pratiche di contrasto alla diffusione e di eradicazione della PSA, di regolamentare l’allevamento nelle terre pubbliche, formare e aggiornare gli operatori del settore suinicolo regionale, rinnovare e adeguare le fasi della filiera suinicola, dall’allevamento alla trasformazione delle carni, istituire una rete permanente degli allevamenti suinicoli al fine di assicurare la tracciabilità nella filiera , individuare e istituire i marchi di valorizzazione per i prodotti di spicco della filiera, tutelare e valorizzare l’allevamento del suino di razza sarda e infine, regolamentare l’attività di macellazione e il trattamento delle carni.
Esistono gli strumenti, ci sono le idee e ci saranno certamente gli allevatori disponibili a cogliere questa sfida, ma tutto questo, senza una volontà politica chiara e priva di retropensieri, rimarrà l’ennesima occasione persa.
Josephine, carchi diferéntzia de sustàntzia b’at tra animales porchinos e animales umanos! O no ti paret? O ponimus a su matessi livellu una criadura chi naschet de su corpus tou cun d-unu procedhu?
Ma no est mancu zustu, ne bonu e ne netzessàriu, a fàghere “orecchie da mercante”, coment’est cun custa “economia” a irvilupu e consumu illimitadu, disastrosu e disumanu, macu e assurdu, PRO DOMÍNIU e no pro bisonzu, “economia” de gherra faghindhe gherras e armamentos macos pro fàghere gherras e ponindhe puru a matessi livellu animales animales e animales umanos, masellendhe unos e àteros, faghindhe masellu cun totu sas gherras, o lassendhe o batindhe a puntu de mòrrere de fàmine milliones de umanos.
E no chistionemus de sos disastros pro su logu, male pro animales animales e animales umanos, totu prus a bocidura chi no pro su chi serbit a una vida sana, “sostenibile”, chentza isazerassiones macas a disastru pro sa zente e pro su logu/mundhu cun totu su chi bi est.
Poveri animali e povero ambiente..inutile volete solo produrre produrre come se gli animali fossero oggetti..ma si facciamo i grattacieli stile in Cina per squartare ancora più animali..ma si facciamoli stressare ancora di più dopo una vita in galera vai di viaggi della morte dal cammion alla nave al mattatoio.. ma si chi se ne frega la gola che verrà squartata non è la vostra..forse era meglio che la peste suina lì uccideva tutti invece che nelle mani ben peggiori degli esseri umani..vergogna spero falliscano tutti gli allevvatori del mondo che Lucrano sulla pelle degli animali e che inquinano il pianeta!
Sebastiano complimenti per la chiarissima esposizione del problema, io ho vissuto il problema già all’inizio nel 1978 e purtroppo gia allora, salvo qualche sporadico abbattimento, il problema non è stato affrontato di petto e per questo motivo si è poi arrivati all’endemia regionale.
Mi trovo perfettamente d’accordo con l’articolo. Nonostante divergenze politico-personali con il direttore, non ho nessun problema a evidenziare che questo articolo ha centrato in pieno il tema PSA ( che seguo oramai da molti anni).
Vorrei aggiungere solamente una piccolissima cosa:
come è abitudine consolidata nelle ” cose” sarde e italiane, in questa vicenda negli anni c’è chi ha guadagnato molti euro, chi con il proprio lavoro ha percepito indennità aggiuntive e chi, come il mondo venatorio, ha speso tantissimi soldi di tasca ( creazione annuale di fosse smaltimento e/o conferimento viscere a ditte specializzate- creazione di sale di lavorazione a norma – consumo quotidiano di prodotti igenizzanti e/o sanificanti). Mondo venatorio che, nonostante abbia contribuito in modo significativo al monitoraggio quotidiano nelle giornate di caccia con i prelievi, è stato usato esclusivamente come braccio operativo senza nessun aiuto.
Domanda:
se, come proponevo io, i cacciatori negli ultimi anni si fossero rifiutati di cacciare il cinghiale, cosa sarebbe successo nella nostra isola? A livello sanitario e di sicurezza con lo spropositato aumento di questi ungulati, sarebbero aumentate le problematiche?
Nuovamente complimenti per l’articolo
Adoro la Sardegna e i suoi prodotti , dalla bottarga al miele , dai crostacei ai vini .
L’eradicazione del PSA non deve esser un optional qualunque sia il numero dei capi suini esistenti . Va fatta punto e basta per una serie di motivazioni inutili da dibattere
Da qui ne deve nascere , potendo , una nuova opportunità , un nuovo prodotto che allevato nelle dovute maniere e sistemi dia lustro e posti di lavoro . Tutto il resto sono chiacchere al vento .
Tutti i maiali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri.
Non so se vi sia solo l’insipienza alla base del bloccare la movimentazione in alcuni paesi ed in altri no, o se dipenda dalla fortuna (esempio: Oliena e Fonni possono movimentare, Orgosolo che è esattamente in mezzo non può farlo, e questo vale per molti paesi)
Andando ad un parallelismo sanitario basta vedere quello che è avvenuto ed avviene con il COVID: l’utopia di pensare a zone franche è stata drammaticamente smentita dalla realtà.
Altro discorso (sempre a proposito di insipienza) è il voler credere che maiali ogliastrini, colti da improvvisa saudade , rinuncino ad emigrare verso il campidano, invertendo il percorso che avveniva durante gli abbattimenti; come dimenticare le migrazioni felici con indennizzi che erano più remunerativi della vendita?
Tant’è. Non so chi abbia deciso, ma una mente sola è difficile arrivi a cotanta imbecillità.
Condivido inoltre tutto l’articolo: ci mancavano solo il velleitarismo e l’abbandono del precedente piano regionale per rendere impossibile la (ri)nascita di un settore dalle enormi potenzialità
… semus chentza Guvernu, a isolamentu in Costituzione, a mercadu abbertu, a esportatzione zero e fintzas a murros assutos in bidha etotu.
Lampu, ma ndhe tenimus abberu de «Eccellenze»!
Si podet nàrrere chi semus sempre “allevando eccellenze”.