di Paolo Maninchedda
Si chiamava Francesco Manconi. È morto domenica sera, tradito dalla malattia autoimmune che aveva indebolito i suoi polmoni. Un grande intellettuale, un grande storico, una persona cui volevo molto bene.
Francesco era un intellettuale di altri tempi, la cui cifra principale era la competenza e l’onestà, personale e intellettuale. Non copiava; non citava a vanvera; sapeva che il discorso storico è un discorso politico ancorato saldamente a dati di fatto. Rispettava la verità delle cose sapendo che, per raccontarla, lo storico mette su un discorso di connessioni, di spiegazioni, di glosse e commenti che fanno tornare i conti anche quando, nella contemporaneità degli eventi, i conti non tornavano. Gli storici sono i profeti del passato, quelli che spiegano tutto a posteriori. Francesco lo sapeva; sapeva che uno storico doveva essere un relativista, un antidogmatico per definizione.
Francesco, e tutta la sua famiglia, hanno sofferto, tantissimo. Eppure, li incontravi e vedevi dignità, non rabbia.
Io ho imparato tanto da lui. Quando scrisse la piccola monografia su Agustí de Castelví, non mi nascose che lui vedeva nel marchese e in Francisco de Vico i due modelli antropologici dei politici sardi: uno para-delinquente e l’altro total-parassitario.
Non voglio ricordare i suoi libri: sono tanti. Ma a lui dobbiamo molto. Inoltre non fu uno studioso sterile, incapace di generare una scuola. Lascia allievi, bravi e maturi. Un uomo, insomma. Il suo ultimo libro sugli Asburgo è un capolavoro. Riposerà a Calangianus, accanto a suo figlio, e io lo aggiungerò nelle mie preghiere notturne, quando ricordo i miei morti.