Gogol è il nome del destino. È il nome che riceverà il primo figlio di una coppia di Bengalesi, Ashoke e Ashima, sposati non per amore, ma perché la tradizione vuole che siano i genitori a combinare i matrimoni. Le donne possono rifiutare il marito che i genitori hanno loro suggerito. Ashima non lo fa, e dopo il matrimonio partono per gli Stati Uniti, a New York, paese dove Hashoke vive e lavora. Per Hashima sarà un trauma abituarsi ad un nuovo paese, cambiare le sue abitudini, abituarsi al “nuovomondo”, ma ci riuscirà. Avranno due figli, un maschio, Gogol, e una femmina, Sonia. Il nome Gogol è un omaggio al grande scrittore Russo, c’è un motivo per questa scelta: da giovane Hashok fu vittima di un incidente ferroviario, si salvò per miracolo, sul treno leggeva Il cappotto di Gogol.
Tratto da un bel romanzo di Jumpha Lahiri, “L’omonimo” (Guanda edizioni), il film affronta tematiche importanti come l’integrazione, l’educazione alla libertà, ma è anche un film di ribellione. La ribellione dei figli che un po’ si vergognano dei genitori e delle loro tradizioni, sono i figli della degli immigrati di prima generazione, non si sentono più Indiani ma, forse, non si sentono neanche Americani. Gogol (un bravissimo Kal Penn ) rifiuta questo nome, lo cambierà in Nick, ma un giorno capirà, come diceva il padre, che tutti veniamo dal Cappotto di Gogol. Mira Nair disegna un film attualissimo, e lo fa con maestria, ricordiamo che con Monson Wedding vinse il Leone d’oro al festival di Venezia nel 2001. Una tenera dedica chiude questo bel film: “ai nostri genitori, che ci hanno dato tutto”.
Di Mira Nair, con Irfan Khan, Tabu, Kal Penn, Linus Roache, Glenne Headly.
di Mario Cadoni