Mercoledì scorso l’Università La Sapienza di Roma ha conferito a Paolo Cherchi ( 1937) il dottorato di ricerca honoris causa in Scienze del testo dal Medioevo alla Modernità.
Paolo ha studiato e insegnato in molti posti nel corso della sua vita, ma principalmente è stato l’italianista di punta della University di Chicago. Oggi è accademico dei Lincei. Ha studiato a Cagliari, dove si è laureato in Filologia Romanza, discutendo una tesi sulla fortuna del Quijote. Capisce e parla il sardo, il francese, lo spagnolo e il solito e dannato inglese.
La sua avventura è iniziata a Berkeley, in California, dove nel 1965 conseguì il PhD, e proseguì a Chicago dove ha fatto tutta la carriera accademica americana (1965-2033), infine, dal 2003 al 2009 ha insegnato Letteratura italiana nell’Università di Ferrara. È un mio amico d’entradura. Me ne parlò per primo, tanti anni fa, il compianto Nicola Tanda, e poi lo conobbi de visu libroque. Riporto di seguito uno stralcio della sua lectio.
(…) Il mio lavoro, essendo un po’ fuori delle vie convenzionali, tende a iscriversi in quella categoria del “raro” che di solito viene visto con fastidio, perché una lunga tradizione ci ha abituato a vedere il raro come categoria dell’erudizione e quindi di un regno che sa di muffa. Sarà, ma non è vero, anzi il raro è il più fresco perché se ne sta da un lato trascurato, e non perché meriti tale castigo, ma perché i ricercatori spesso non hanno la curiosità che nella ricerca è un motore potente.
Nel mio lavoro ho imparato che due principi devono essere di guida: il primo è che bisogna trovare i problemi da risolvere.
Sembra un gioco di parole, ma la differenza è importante.
Chi cerca ha di solito le piste tracciate dal lavoro pregresso, quindi lavora sul previsto e sul terreno conosciuto, e le soluzioni, per quanto nuove possano essere, rispondono a domande ben precise.
Chi non cerca i problemi, ma li trova, è invece lo studioso che ha la fortuna di avere una bella immaginazione critica e di intuire l’esistenza di un problema e quindi, quando arriva a risolverlo, avrà fatto una vera scoperta che apre nuove strade. Entrambe le forme sono necessarie nel nostro lavoro, ma è ovvio che chi si muove in territori conosciuti, di solito produce lavori solidi ma non innovativi, mentre chi “trova”, finisce per produrre scoperte feconde di altre vedute e di altri lavori.
Quanto alla soluzione dei problemi cercati e trovati, l’esperienza mostra che esiste talvolta un elemento che ci porta alla soluzione giusta, ma è un elemento che non controlliamo e che si chiama ‘fortuna’ o caso. Nel mondo della ricerca erudita, quindi in quello tipico del poco noto, questo elemento visita spesso i ricercatori. A me è capitato spesso. Ne ricordo alcuni esempi.
Una volta dovevo identificare una citazione di un passo alquanto fuori dell’ordinario perché trattava di astrologi e di non ricordo più quali ascendenti lunari o cose del genere. Cercai in tutti i testi che conoscevo e che cercai di conoscere, senza risultati positivi. (….) E mentre stavo per scrivere il classico “fonte non identificata”, volevo fare un controllo sull’ortografia di una parola latina, da uno scaffale dei miei libri presi un dizionario di latino e, spostando qualche libro, uno di questi mi finì sul tavolo e aperto proprio alla pagina che conteneva il passo che cercavo! (…)
Sono stato fortunato in tutti questi casi e qualche volta mi chiedo cosa sia la fortuna.
Questa esiste in ogni scienza: essa è, dopo tutto, la vecchia eureka di Archimede, la combinazione di eventi che inaspettatamente rivelano una legge fisica o, nell’indagine filologica, una fonte che illumina un fatto e un dato. Ma è una spiegazione che lascia insoddisfatti, perché si può dare solo a cose avvenute, quando cioè queste combinazioni si manifestano e che, però, non si possono predire. E possiamo aggiungere, inoltre, che insieme alla buona esiste la mala fortuna, che richiede altre spiegazioni, ma agisce anch’essa in modi misteriosi. Quante volte succede che finiamo un lavoro e ci accorgiamo a cose fatte che qualcuno c’è arrivato prima di noi! Io non saprei dire cosa sia la fortuna meglio di quanto abbia fatto un ragazzo ebreo che vinse cinquanta milioni alla lotteria.
Gli amici gli chiesero come aveva fatto a vincere e lui rispose in questo modo.
– Io gioco sempre il numero quarantotto.
– E perché?, gli chiesero gli amici.
E lui:
– Mio nonno mi ha insegnato che per aver successo nella vita ci vogliono sapienza e fortuna. E quello che io so è che nella mia cultura il numero perfetto è sette e io, per renderlo ancora più perfetto, lo gioco sempre al quadrato.
– Ma scusa, sette per sette fa quarantanone!
– Sì è vero, ma lì è dove c’entra la fortuna!
Insomma, la fortuna è quella che alla fine vince e ci rende vincitori, e sia quello che sia, purché ci assista. E non dovremmo chedere di più.
Ho sempre augurato ai miei figli e nipoti di essere fortunati. E poi anche bravi, se ci riescono.
Grazie Paolo
Fratello di Placido Cherchi, altra grande mente.
Buongiorno Paolo,
una lettura che rilassa la mente
Le letture che illuminano una giornata.