Francesco Pigliaru è uomo ‘di grandi riflessioni’, dice un suo amico. Ed è vero. L’attrazione per il profondo è il suo lato migliore.
Ieri ha pubblicato un lungo saggio divulgativo che, già dalla prima lettura, si comprende essere stato pensato a lungo, scritto in forma semplice per essere compreso, sfidante sul piano politico.
Si intitola Il Pd tra mercato, produttività stagnante, salari bassi e tutte quelle cose lì, irrisolte .
Personalmente non so perché egli abbia militato e si rivolga al Pd. Niente di più distante di loro.
Pigliaru è un inattuale, come il padre (nato a Destra, adottato a Sinistra, ma sostanzialmente uno dei crociani più complessi della storia italiana, al quale le definizioni standard stavano fastidiose come gli slip a chi è abituato ai boxer).
Il Pd è attualità senza pensiero (si pensi a Boccia).
Capita che gli opposti si amino.
Credo che in questa scelta dell’interlocutore abbia prevalso il pragmatismo anglo-americano di Pigliaru, quello che lo porta a individuare chi può fare qualcosa e a ignorare i marginali (che, però, hanno spesso fatto la storia e che comunque stanno simpatici a me). Quindi, per capirci, Pigliaru rivolge al Pd la sua riflessione in quanto forza di governo (e in questo, come dargli torto? Il Pd è solo ambizione di governo e niente di più. È un partito di potere che vive dell’aver occupato con destrezza la posizione ufficialmente opposta alla Destra. Dico ‘ufficialmente’ perché poi ‘praticamente’ il Pd, per esempio, incentiva la vergognosa mangiatoia nella quale la Todde sta trasformando il sistema delle consulenze inventato da Solinas. Siamo ormai ai play off per i trombati alle elezioni).
Il tema prescelto fa davvero pensare: la produttività stagnante dell’Italia. Qui Pigliaru deve aver fatto uno sforzo sovrumano per riuscire a farsi capire e per non assumere i toni snob del suo gemello sardo, il prof. Guiso.
Pochissimi in Italia legano la produttività stagnante, cioè quanto produce un lavoratore in un’unità di tempo, al tema dei salari bassi. Pigliaru lo fa egregiamente, lo fa in un modo che dovrebbe essere insegnato nelle scuole. Provo a spiegarlo con parole mie.
Poniamo il caso di scegliere un anno zero, il 2000, nel quale facciamo partire l’indice di produttività alla pari. I dati ci dicono che in dieci anni circa il lavoratore italiano ha perso cinque punti di produttività, quello americano ne ha guadagnato 25. Detto in altri termini: il lavoratore americano produce in un’ora il 30% in più di quello italiano. Poniamo che si producano caramelle: l’americano in un ora ne fa 125, l’italiano ne fa 95, mentr prima ne faceva 100. Voi chi assumereste?
Ovviamente, l’imprenditore americano vende le caramelle a un prezzo più competitivo di quello italiano e riesce a pagare meglio i suoi lavoratori. Non solo: il solito americano riesce a produrre un gettito fiscale più consistente e dà alla politica la facoltà di scegliere come destinarlo (gli americani fanno più esercito che sanità, ma sono fatti loro, noi potremmo fare il contrario).
Qui Pigliaru pone una prima domanda al PD: “Ma voi, che cosa pensate sia davvero il mercato?”.
Per Pigliaru il mercato è il luogo dove si produce ricchezza. Piaccia o non piaccia come definizione, essa ha un contenuto di realtà difficilmente contestabile. Si può dire che produrre ricchezza non è il destino dell’uomo, ma non si può negare che le nazioni che la producono bene vivano meglio delle altre.
Si potrà contestare che chi pensa solo a produrre ricchezza sta distruggendo il pianeta, ma è difficile contestare che non vi è società equilibrata dove non vi sia ricchezza prodotta. Quindi il tema vero posto da Pigliaru è simbolico e non realistico. Egli sta dicendo al Pd di Schlein di decidere se continuare a guardare alla ricchezza con disgusto snob, come fa attualmente, cioè come fanno quelli che ne godono praticamente disprezzandola ufficialmente, o se porsi il problema che è proprio l’assenza della cultura della ricchezza collettiva il motivo della decadenza dell’Italia. Il Pd conserva inconsciamente nelle sue viscere il disprezzo verso il sistema capitalistico che era tipico del Pci ed è quest’anima carsica che sta confusamente riprendendo piede con la segreteria Schlein. Il vecchio Pci, tra compravendita di elicotteri e profumi rubati, vive schizofrenicamente il suo desiderio consumista e la sua presunta morale collettivista.
Pigliaru spiega i fattori che intervengono nella produzione della ricchezza, tra i quali, importantissima, l’innovazione e, nella fattispecie, l’ultima grande innovazione tecnologica che è in campo, l’IA, cui non ci stiamo minimamente preparando. Questo non lo riassumo e invito ad andare a leggerlo.
Onde evitare, però, di essere frainteso come sostenitore del vecchio laissez faire, Pigliaru spiega come dovrebbero essere le sacrosante politiche sociali che devono intervenire a proteggere le persone dalle logiche di mercato. Non l’assistenzialismo, non il debito pubblico, non il populismo, ma il sistema della sicurezza e della flessibilità, che è strettamente connesso con quello dell’istruzione (i danni della scuola delle competenze cominciano a vedersi). Il problema politico è sincronizzare la libertà di mercato, l’innovazione tecnologica e le moderne politiche sociali.
Non è semplice, ma è ciò che appare inevitabile.
Il Pd, invece, insegue i Cinquestelle sul reddito di cittadinanza o la Cgil sullo sganciamento dei salari dalla produttività. Oggi è possibile premiare chi lavora meglio e bene, e gli altri Paesi lo fanno; invece in Italia è la forza del numero di chi lavora mediocremente a fare il valore del lavoro e, quindi, a produrre salari bassi, sanità mediocre, istruzione fallimentare. È la logica del mediocre che diviene potente per consenso e non per merito intrinseco (si prenda Comandini come esempio politico e si capirà tutto) e che deve appiattire tutto verso il basso per valorizzare i suoi pochi centimetri di differenza.
Il tema è veramente grande e strategico.
Buona lettura (se credete).
@Gianluca Serra
Il dibattito nei commenti invece lo trovo interessante. Non intendo affatto sminuire Pigliaru, che considero una mente valida. Tuttavia, è cruciale capire che i problemi economici italiani sono radicati in questioni ideologiche profonde.
La produttività del lavoro in Italia è cresciuta solo dello 0,3% annuo negli ultimi dieci anni, ben al di sotto della media UE (dati Eurostat). Questo non è un problema che si risolve con semplici aggiustamenti tecnici. Ale ha ragione nel dire che il neoliberismo non è la panacea per tutti i mali economici. Secondo l’OCSE, i paesi con una forte rete di sicurezza sociale tendono ad avere una maggiore stabilità economica e coesione sociale. L’Italia ha bisogno di riforme che vadano oltre la semplice produttività e affrontino le disuguaglianze strutturali. Abbiamo una cultura che premia la conformità e il potere a breve termine invece dell’innovazione e del merito. È essenziale affrontare questi problemi con una visione ampia e radicale, ovviamente si parla di politiche che vanno molto oltre la politica regionale. Secondo me dobbiamo partire dall’incremento di fondi pubblici e privati per la ricerca e lo sviluppo tecnologico, incentivando le startup e le imprese innovative. Sarebbe importante anche introdurre la settimana lavorativa di quattro giorni per migliorare il benessere dei lavoratori e stimolare la produttività. Inoltre in Sardegna è importante farne una delle Zone Economiche Speciali (ZES) con incentivi fiscali e regolamentari per attrarre investimenti e stimolare la crescita economica. Infine, sono per introdurre politiche che favoriscano la flessibilità e la mobilità lavorativa, riducendo la burocrazia.
@ Franco
E certo!
Uno studia tutta la vita, ci mette la faccia, il lavoro e i numeri e poi arrivano Eddie, Irvine e ….. Franco e gli ettasinanta sempre occultamente anonimi a fare i guastatori in palas anzenas con quattro frasi messe a caso e senza aver capito molto di cosa sia la produttività e il welfare.
Rispondete con numeri e dati, non con frasette ideologiche piene di astio e nascosti dietro un muretto a secco.
In realtà, se nota bene, parte dell’esperienza del governo Pigliaru si sta riproponendo con il governo di your dear. Mi riferisco alla sanità dove le prime nomine dell’assessore sono persone che sono state molto vicine al gruppo Arru-Moirano che ha creato ATS Sardegna. E non a caso il disegno di legge che è circolato sembra indirizzato a un deciso rafforzamento delle competenze di ARES e all’avvio di un processo di incorporamento di aziende.
A Pigliaru li cheriat fàghere una dimandhedha, a isse chi ischit de economia meda menzus de a mie:
Ma nessi cumpresu l’at chi s’economia dominante est una economia mundhiale de gherra (e gherra mundhiale, cun totu sas ‘régulas’ de sa gherra, sempre e solu crimine contr’a s’umanidade)? Faghindhe de su mundhu unu muntonarzu e un’iferru, unu masellu de mortos e dannos sempre prus mannos de cada zenia!
Ite progressu est custu de distrutzione, disastros e ingiustitzias?
Custa dominante no est una economia pro campare e campare menzus, chentza diventare idròvoras a consumu illimitadu e infinidu, ma cussa de un’irvilupu macu, assurdu, distrutivu de su logu, de sos benes e de sa zente ammuntonendhe capitales pro bìnchere e dominare (chie binchet) e pèrdere e lassare sempre de prus cambados zente e pópulos, fatos cumbìnchere e ispintos a cùrrere ifatu issos puru pro… incurtzare sa distàntzia, disponìbbiles e airados a fàghere su matessi irvilupu e consumismu macu!
Pigliaru, buon pensatore indubbiamente, critica giustamente l’attuale situazione economica e politica in Italia, ma non approfondisce le radici ideologiche dei problemi. La produttività non è solo una questione di efficienza economica, ma è radicata nelle dinamiche culturali e sociali della società. Confrontare i modelli di produttività senza considerare queste specificità rischia di semplificare troppo la questione.
La stagnazione della produttività in Italia deriva da una struttura sociale e politica che premia la conformità e la gestione del potere a breve termine, piuttosto che la creatività e la visione a lungo termine. Questo riflette un capitalismo tardivo che preferisce conservare lo status quo anziché promuovere una trasformazione radicale.
In altri paesi (vedi nordeuropei) si lavora per meno ore settimanali ma si produce di più, grazie a un diverso approccio al lavoro, centrato sulla qualità e il benessere dei lavoratori.
In Italia, invece, si enfatizza la quantità di ore lavorate e ci sono resistenze di fronte a ogni proposta sul benessere dei lavoratori.
Migliorare la produttività richiede un cambiamento profondo nelle strutture sociali e politiche e una nuova visione culturale del lavoro e del benessere collettivo.
Inoltre, il potere delle multinazionali supera quello dei singoli stati, complicando l’attuazione di politiche sociali ed economiche e favorendo la concentrazione della ricchezza. Questo potere economico influenza anche le percezioni, i desideri e le identità, rendendo difficile immaginare alternative radicali.
La critica di Pigliaru è insufficiente: non basta evidenziare le carenze del sistema attuale, bisogna mettere in discussione le sue fondamenta ideologiche e immaginare nuovi paradigmi di organizzazione sociale ed economica.
I commenti di Ale ed Eddie una lezione per Pigliaru
La mediocrità ed il suo culto ossessivo da parte sindacale ,hanno modificato intere generazioni ; a partire dalla scuola : tutti promossi ; per finire nelle contrattazioni nazionali o aziendali che per uniformare stipendi e salari hanno sottaciuto , se non favorito la girmazionefi utiliaziendali soesso finiti nellevoraci tasche dirigenziali dei managers . I premi di produttività ,in teoria diretti a personale distintamente produttivo,venivano e cengono elargiti a pioggia ,spesso erga omnes , per prestazioni ordinarie già remunerate con lo stipendio ordinario .In fabbrica o negli uffici , si avverte un appiattimento che disincentiva le prestazioni straordinarie e rende monotona e poco produttiva la prestazione contrattualmente ordinaria con evidenti riflessi sulla produttività individuale e collettiva .Purtroppo,la cultura sindacale ,dagli anni 90 in poi,ha perso le caratteristiche originarie di contrapposizione al padronato per assumere una posizione consociattivistica che sorvolando sui propri assistiti ( a cui dovrebbe essere rivolta la principale attenzione ), ha favorito la depauperazione industriale e la progressiva disistima dei lavoratori verso le proprie mansioni . L’attuale PD di Elly ,guidato non dimentichiamolo ,da persona che le fabbriche le ha viste dall’autostrada e che per entrare nel PD ha occupato la federazione. ( A guisa Salis) e per ottenere la segreteria si è dovuta appoggiare ai 5* di Conte appena disarcionato malgrado la portabilità del reddito di cittadinanza , debiti da covid , rotelle scolastiche e monopattini per andare al lavoro .
In tutto questo fritto misto,come si fa a parlare con cognizione seria di remunerazione adeguata del lavoro ? Come si fa ,come mi pare asserisca il prof.Pigliaru a parlare di redditività , se non si estirpano prima le cause che hanno e mortificano il lavoro . Non sarà certoElly Fratoiani o Conte che applicheranno la formula magica che negli USA ha dato e da buoni frutti .
Pigliaru individua nella produttività il principale problema da affrontare, immagina la scuola come strumento per la formazione di manodopera e il rafforzamento delle dinamiche di mercato come strumento per la produzione di ricchezza da distribuire con politiche di condivisione e giustizia sociale; bontà sua, auspica il rafforzamento della flexsecurity per tutelare i lavoratori di fronte alla distruzione creatrice.
Diciamo che Pigliaru non pensa fuori dagli schemi, non si ribella alla prospettiva neoliberista che pretende di essere one best way, converge con il mainstream del capitalismo finanziario e con gli economisti che ha creato il mondo nel quale viviamo dove il plusvalore si sposta dal lavoro al capitale (specie quello finanziario speculativo e talvolta parassitario che domina anche il capitale produttivo).
Posto che la struttura di mercato prevalente non è certo quella concorrenziale ma quelle oligopolistica e monopolistica, con la globalizzazione la produttività delle c.d. fabbriche del mondo sarà sempre più elevata di quella italiana, si può stare certi. Gli USA cercano di reindustrializzarsi attraverso il protezionismo investimenti pubblici finanziati grazie all’esorbitante privilegio del dollaro, ma i lavoratori americani non sono in grado di competere con i lavoratori cinesi, pakistani o indiani. Figuriamoci cosa può fare l’Italia priva di strumenti reali di politica economica.
Non sarà che un paese che non decide sulle proprie politiche fiscali (in quanto stabilite da parametri predefiniti), monetarie e valutarie (perché decise da una banca centrale che non è qui per controllare gli spread – Lagarde dixit – e risponde a interessi spesso in competizione con quelli dei cittadini italiani), per competere sui mercati internazionali non ha altra via se non ridurre i salari?
Quali sarebbero queste politiche pubbliche forti e adeguate che dovrebbero portare a una equa distribuzione della ricchezza in luogo dal lassaize faire, e quanto sono compatibili con i trattati europei?
Non sarà che la Danimarca e la Svezia, il modello da imitare secondo Pigliaru, hanno gradi di libertà che l’Italia non ha, non foss’altro perché usano la Corona e non l’euro e possono quindi utilizzare la leva monetaria e quella valutaria?
Possibile che il Pigliaru non si ponga il problema di analizzare anche in una prospettiva storica le politiche economiche (di politica monetaria, valutaria e fiscale) e industriali (dalla riunione sul Britannia, alla dismissione delle grandi imprese pubbliche e all’espropriazione del sistema bancario) attuate negli ultimi trent’anni e non ipotizzi che non abbiano funzionato perché le scelte a livello strutturale sono inadeguate e divergenti rispetto all’interesse delle classi che dovevano essere difese e tutelate?
Due note a margine sul 110 e sulle piccole imprese:
1. Il 110 è stato senza dubbio uno strumento iniquo e rozzo ma non è per questo che è stato stoppato e neppure perché finanziava le ristrutturazioni private con la finanza pubblica. È stato stoppato perché era una politica monetaria mascherata, diciamo all’italiana: con il meccanismo della cessione e lo scambio dei crediti fiscali si andava a creare una moneta fiscale in grado di aumentare la base monetaria in un momento in cui la BCE si apprestava a fare politiche restrittive. Alla BCE ovviamente non potevano accettare una cosa del genere: la circolazione dei crediti fiscali è stata bloccata e con essi il moltiplicatore monetario.
2. Spesso le piccole imprese, ancorché inefficienti e sussidiate sono le poche rimaste, visto che la maggior parte di quelle grandi sono sparite o quando ancora operano in Italia hanno comode sedi in Lussemburgo.
L’impressione è che si tratti di una guerra ad armi impari.
Da un lato le grandi multinazionali il cui unico obiettivo è quello di fare profitti sempre maggiori, senza tener conto dei danni ambientali e delle condizioni lavorative dei propri dipendenti. Per perseguire il loro scopo delocalizzano le attività produttive nelle aree geografiche dove maggiore è la disponibilità di manodopera a basso costo. Come già rilevato, si tratta di entità in grado di imporre le proprie regole agli stessi Stati.
Dall’altra i lavoratori che subiscono questa situazione: nei paesi industrializzati, dove si è determinato un aumento della disoccupazione e della precarietà e nei paesi dove vengono attualmente delocalizzate le attività produttive che pagano queste politiche in termini di salari bassi e condizioni di lavoro che da noi sarebbero considerate “fuori legge”.
Nel mezzo ci sono i governi occidentali, ormai rassegnati, succubi, a volte, complici (si pensi alle società di stato nei settori dell’energia e degli armamenti) e comunque incapaci di porre in essere politiche industriali per fare fronte alla situazione.
Non conosco il sistema economico di Santo Domingo, mi astengo quindi da qualunque osservazione in merito. Rilevo tuttavia come, talvolta, si prendano ad esempio di paesi ad elevata crescita economica, proprio quelli in cui sono maggiori i problemi di carattere sociale determinati da politiche industriali selvagge. Se il prezzo da pagare per un più elevato tasso di sviluppo è diventare schiavi delle multinazionali, accettando condizioni di vita e di lavoro che dovrebbero essere un ricordo del passato, allora: No, grazie.
Buongiorno,
Il tema centrale è se una forza di governo che possa definirsi con tali ambizioni possa eludere queste riflessioni e poi non pagarne un prezzo.
Certo i tempi della politica e quelli del fare sono quasi inconciliabili ed immaginare che una riforma, qualsiasi ma seria, abbia il tempo necessario per diventare meccanismo efficiente ed efficace è un puro ologramma.
Il ragionamento breve che vorrei proporre si basa su due focus ineludibili per me.
Il primo la Sardegna e l’operatività delle sue istituzioni e il secondo il mio mestiere che da quarantanni è quello del bibliotecario.
Si dirà che si scende troppo sul particolare e sul personale ma ribatto che dal particolare si valuta l’efficacia e che preferisco parlare di quello che so e maneggio. Dunque la cultura o, nella sua accezione più accreditata nelle valutazioni econometriche e di pianificazione, la creatività.
Un comparto che in Italia ha più occupati di quello dei trasporti e produce una bella fetta di PIL.
In Sardegna abbiamo numeri simili con la considerazione decisiva che essere sardi vuol dire per tutti tutelare e vivere spesso con difficoltà e smarrimento la liquidità del concetto stesso di cultura sarda che comunque, nella sua accezione iconica è sensibile ed interiorizzata da tutti noi.
Che il PD, intendo quello sardo, si occupi di produttività stagnante nel settore cultura magari per attualizzare le politiche domenicane di investimenti sul welfare sociale e culturale è un’ipotesi che lo stesso PD sardo non ha preso in considerazione, almeno a mia memoria e mi scuso se dovessi sbagliare, assumendo la responsabilità dell’Assessorato Regionale che, avendo competenze anche sull’Istruzione, sembrerebbe la macchina amministrativa ideale per dare corpo a riflessioni di “ragion pura” su fini e mezzi.
La funzione centrale che un sistema di wellness culturale, come a Santo Domingo sembra abbiano capito, assicura nella gestione del cambiamento e dell’innovazione è fondamentale perché l’innovazione è sempre in prima battuta una questione personale di attivazione di conoscenza e consapevolezza: quella che le imprese chiamano Area Ricerca e Sviluppo destinata agli investimenti e all’incremento della produzione e della produttività.
Se poi consideriamo che i finanziamenti diretti all’occupazione nel settore cultura, precaria per la verità, della RAS costituiscono mediamente l’80% dell’investimento totale e ci aggiungiamo che le Biblioteche, gli Archivi, i Musei sono quasi tutti di proprietà pubblica e che sono diffusi sul territorio in maniera capillare (340 biblioteche comunali aperte in 377 comuni) ci appare un quadro di tale centralità anche nella politica regionale che richiede una luce sulla scelta del PD di non occuparsi direttamente di tali questioni pur avendo storia e risorse per provarci con entusiasmo.
Pigliaru guarda al PD perché vi è legato dalla stessa matrice liberaldemocratica, che traspare anche dal suo scritto.
Il tema della produttività è a dir poco fuorviante se declinato (e accollato) alla categoria dei lavoratori, concetto totalmente estraneo alla cultura politica della cosiddetta “sinistra”, totalmente impregnata dell’armamentario ideologico neoliberista.
Il tema vero è l’aumento della produttività dei sistemi produttivi – in atto pressoché ovunque a livello globale, ancorché con gradazioni diverse, come certificato da un’ampia produzione statistica di diversi centri di ricerca internazionali, afferenti a soggetti diversi e disparati (dal FMI a OXFAM) – cui non corrisponde alcun aumento dei salari (o, nel migliore dei casi, in misura sensibilmente inferiore rispetto alla remunerazione del capitale, e quindi dei profitti).
I postulati ideologici da cui muove Pigliaru – che hanno segnato le politiche economiche degli ultimi 40 anni e la conseguente progressiva liquidazione di quello che un tempo si chiamava “modello sociale europeo” – servono solo a giustificare, contro ogni evidenza fattuale, gli interventi di sostegno a favore del totem della crescita economica, ossia di chi questa crescita dovrebbe produrla (e in effetti sì, la produce, ma per sé stessa, non certo in un’ottica di sviluppo generale): le grandi imprese e le loro appendici che riescono anch’esse a trarne profitto, un po’ come i pesciolini che nuotano al lato degli squali.
Peccato che questi processi di crescita si basino su alcune cosette insignificanti, tipo deregolamentazione del mercato del lavoro (leggasi precariato), aumento della sfera del mercato come strumento di regolazione dei bisogni economici (versus Welfare e forme di autoproduzione), riduzione dell’intervento pubblico nell’economia (ossia nei servizi: dicono qualcosa gli esempi della sanità e dell’istruzione?), smantellamento delle politiche di redistribuzione del reddito, erosione dei sistemi giuridici su base statale a favore di aggregati politici sovranazionali in grado di imporre regole (liberiste e pro-dumping) agli stessi Stati.
Tutto il resto è propaganda che si vuole spacciare per scienza.
Bellissimo assolo di Pigliaru,purtroppo inutile per un pd che soffre di grave ipoacusia bilaterale.
Credo che ci si rivolga al PD perché non è rimasto altro a cui guardare. Per la speranza possa esserci qualcuno che, al di là, dei discorsi, operi per un miglioramento economico, sociale, etico di tutti, in specie di quelli che un’evoluzione non controllata del mercato sta creando.
A latere, mi chiedo se l’esempio americano sia quello su cui modellarsi, se a parte la produttività non vi siano altri ed importanti valori a cui guardare.
Ma parlo da persona comune.