Apprezzo molto il cinema di Paolo Zucca, ma questo film mi ha lasciato insoddisfatto.
Avevo letto il libro appena pubblicato.
Era il 1979.
Un libro di pura ideologia femminista, durissimo, contundente.
L’anno prima (1978) era stata approvata la legge 194, quella sull’aborto.
Due anni dopo, 1981, si sarebbe votato il referendum per mantenerla o abolirla.
Il contesto era quello e il libro ci stava tutto dentro. Io lo lessi perché mi piaceva lei, la Alberti e perché me lo fece leggere una compagna comunista dalla cui intelligenza ero affascinato. Nel mio mondo, quello dei cristiani di base, il tema dell’aborto era lontano, nel loro, i compagni, era centrale. Noi eravamo tutti Ulisse; l’avventura che cercavamo era amore e sesso; la politica era epica. L’aborto non era nei nostri orizzonti. Loro, le compagne, lo raccontavano. Era un tempo in bianco e nero, senza sfumature, all’esterno; ricco di innumerevoli colori nei cuori di ciascuno. C’era un gran casino dentro e fuori. Quando, nello stesso anno, venne pubblicato Un uomo di Oriana Fallaci, pensai che anche io, lontanissimo dagli eccessi d’ira di Panagulis, avrei comunque voluto al mio fianco, e io al suo, una donna come la Fallaci. Erano tempi intensi, sublimi.
Quando si trasmuta un libro ideologico, a tesi, che sviluppa la sua trama come si illustra un’allegoria, si corre un rischio: fare un cinema di maschere fisse, senza profondità. I simboli, una volta ridotti a bandierine, non evocano nulla, sono parti in uno scontro tra parti. Una noia mortale.
Per interpretare un’ideologia serve un interprete che le dia la profondità e il calore dell’umanità, del vissuto.
Gassmann, nel film, ci riesce, nonostante pronunci pochissime parole e sia impegnato in brevissimi dialoghi. Ci riesce perché incarna nella postura, nello sguardo, nel modo di essere, il sapere amorevole, paziente, tollerante, e insieme la solitudine degli adulti senza amore, con tanto da dare e nessuno che se ne accorga.
La Porcaroli, invece, recita, ma non convince. Quel personaggio non le è entrato dentro, non ce l’ha. L’unico momento nel quale ha spessore è nella battuta finale, quando dice “Amore mio”.
La folla, trattata come coro greco, è troppo, troppo piatta. È sporca perché povera, pulita perché ricca. Passa in un attimo dal linciaggio alla richiesta di Grazia. Parla tutti i dialetti sardi, ma ripete sempre la solita solfa arcaica della Sardegna rurale che fu, di cui nessuno ha alcuna nostalgia.
Come diceva Victor Hugo, qualsiasi idea, ma soprattutto le più grandi, richiede un involucro visibile. Ma l’involucro deve essere bello, composto, lineare, profondo e armonioso. Qui, invece, in diverse parti, la sintassi del film è franta, con scene giustapposte ma non connesse. Zucca ha mangiato il libro a bocconi grossi non digeriti. E anche in questo caso, come ne L’uomo che comprò la luna non riesce a contenere il suo lato kitsch: l’angelo, con le ali posticce tenute insieme da una cinghia incrociata sul petto, biondo e prepotente, messaggero di un dio tiranno, è volutamente trattato come comparsa da recitina di terza media. Non fa ridere, non suscita sentimenti, è un intruso estetico.
Zucca ha molto ancora da dire. Lo si vede dalla parte più bella del film: l’ambientazione. Il prenuragico e il nuragico rivivono (Tamuli e Villa Sant’Antonio). San Giovanni del Sinis è una bellissima sinagoga. Il Flumendosa un fiume delle origini del mondo. Zucca sa far parlare le pietre che noi Sardi abbiamo dentro e fuori.
Una cosa è certa: il finale di Zucca è più filologico, rispetto alla narrazione dei Vangeli, di quello della Alberti. Gesù fu realmente accolto in una famiglia; ebbe fratelli e sorelle. Uno, Giacomo, fu il capo della comunità di Gerusalemme dopo la morte e resurrezione di Gesù.
Maria, a Lourdes, si presentò come l’Immacolata, non come la Vergine.
Alla prossima.
Ora, leggendo di questa mancanza di profondità, posso dare una definizione alla sensazione che danno i vari personaggi di Zucca in questo e nei precedenti film. Vorrei dire, però, che questo è il marchio di fabbrica di Zucca. Il suo cinema è surreale, le storie saltellano un po irregolari in superficie, i tratti emergono senza bisogno di introspezioni didascaliche, e senza cedere alla retorica riescono a regalare sorrisi, forse qualche risata e il cuore riempito di qualcosa di buono.
Per quanto riguarda la Sardegna arcaica, io non vedo alcuna possibilità di rigetto. Zucca ha una visione forse distorta da paure infantili ma anche qui va capito che non si prende troppo sul serio, anzi ci gioca come fa con un po tutto quello che mette dentro ke sue pellicole.
Forse c’è qualcosa che non va nel ritmo durante il corso del film ma insomma c’è tempo per migliorare.
Per restare sulla filmografia recente prodotta e realizzata in Sardegna, segnalo che su raiPlay è disponibile il meraviglioso e struggente “L’agnello”, di Mario Piredda (https://www.raiplay.it/programmi/lagnello).
Sono d’accordo col giudizio sull’interpretazione di Gasmann ma non su quella della Porcaroli che ho trovato dinamica e convincente.
D’altronde interpretava il ruolo di una adolescente (tra i 13-16 anni) che, ancorché cresciuta in un ambiente compresso, per le ragazze, da società e famiglia, ha moti di ribellione ispirati da una volontà di crescita ed apprendimento. Quindi una ragazza che procede per tentativi di interpretare la propria vita con una chiave di libertà verso i genitori, la società, la religione e quel Dio che le ha imposto un figlio che la ostacolerebbe in questa sua ricerca.
Ho trovato che la Porcaroli abbia dimostrato con tensione interpretativa quel personaggio che mi ha convinto.
Dopo Su Re del regista Giovanni Columbu, altro tentativo coraggioso a tema religioso.
Riconosco al regista Paolo Zucca il coraggio. Girare un film con la figura della donna, è una provocazione intellettuale. Spero che sia un’aiuto a tutti noi, uomini comuni, ad avere maggiore rispetto.
Buona giornata a tutti noi.