In una recentissima visita a Nuoro ho fatto giusta sosta alla cappella famigliare di monsignor Ottorino Pietro Alberti e salutare lui, che mi fu caro (o tale divenutomi dopo tanto tempestosa relazione che, per diverso tempo, qualche eco ebbe nel clero e certo laicato della maggior diocesi isolana), riservandomi di rimbalzare pubblicamente i sentimenti di pura umanità che una tappa al cimitero sempre suscita in chi la compie alla ricerca dell’essenziale. «Pastor bonus / sapiens ardens / vitam suam Deo et fratribus consecravit / studiis historiae sardae valde impendit / pro apostolica sede causas sanctorum curavit / Concilio Plenario Sardo praefuit / in sua civitate nuorensi piissime obiit / iulii die XII anno Domini MMXII»: questo ho letto nella lastra tombale, solenne ed umile ad un tempo, incisa sul pavimento.
Onorando anche in questo 2023 la cara memoria dell’arcivescovo di Cagliari (dopo che di Spoleto-Norcia), ora che siamo all’undicesimo anniversario della sua morte, ho creduto utile di insistere nel ripasso, da diversi anni avviato, della sua produzione scientifica in quanto storico della Chiesa, e della Chiesa sarda in particolare. Una tematica che egli ha teso sempre a inquadrare entro le più larghe coordinate sociali, culturali e politiche del passato isolano, non soltanto barbaricino (anche se le vicende della sua Nuoro e della provincia amministrativa spalmata fra Barbagie, Baronia e Marghine/Planargia hanno sempre appassionato, con un surplus di affezione, il ricercatore impegnandolo per lungo tempo fra archivi e biblioteche sarde e continentali).
Nell’“appuntamento” dello scorso anno – ché avverto necessario non mancare mai, dandosene la circostanza, alla riproposta dei suoi originali contributi e così mantenere vivo il ricordo di una così rilevante personalità – presentai nel dettaglio, soffermandomi su ogni titolo, il regesto Alberti in due testate purtroppo cessate ormai da tempo: il Nuovo Bollettino Bibliografico Sardo e archivio tradizioni popolari, fondato nel 1955 dall’indimenticato Giuseppe Della Maria, e Frontiera, il mensile centralizzato fra Nuoro e Sassari che (con Alberti cofondatore ideale e comunque ispiratore del progetto editoriale) Remo Branca dette alle stampe, presso la Fossataro di Cagliari, dal 1968 al 1977. (Così il mio “Ottorino Pietro Alberti e i suoi affacci in Frontiera e nel Nuovo Bollettino… Nel decennale della scomparsa, ripassando alcuni suoi scritti”, in Giornalia, 17 luglio 2022).
Furono ben 24 gli articoli, il più delle volte con il taglio del saggio breve, quelli consegnati da don Ottorino alla redazione del periodico nuorese e concentrati nei primi quattro anni di uscita dello stesso, ché poi il biennale rettorato del seminario regionale (giusto nel 1971 trasferito da Cuglieri a Cagliari) e la promozione all’episcopato umbro, in costanza peraltro di una docenza mai sospesa alla Lateranense, impedirono materialmente al Nostro di proseguire con la stessa assiduità prima generosamente assicurata.
Nove furono invece i contributi più rapsodici, e arrivati fino al 1976, passati al Nuovo Bollettino, pressoché tutti integrati da lunghe appendici documentarie (come, ad esempio, sui “Rilievi geografici” delle carte di Rocco Capellino, o Cappellino che dir si voglia).
Si trattò, in un caso e nell’altro, di un mix di soggetti religiosi e soggetti civili colti secondo la speciale sensibilità dello studioso il quale non poteva evidentemente disgiungere l’esplorazione di una qualsiasi tematica di chiesa dal contesto “profano”, sociale e culturale in cui essa si collocava, e viceversa, dandosi evidenti i nessi d’una qualsiasi materia dell’ordine civile con la pervadente presenza nel corpo sociale (e nella dialettica fra i poteri) della Chiesa con la sua dottrina e i suoi costumi.
A trovare giusta conferma di tali intime connessioni aggiornate ai tempi che sono i nostri stessi, il pensiero potrebbe andare adesso alla ventina di discorsi tenuti dall’altare davanti alle maggiori autorità cittadine e regionali d’ogni amministrazione nell’appuntamento del 30 ottobre, solennità di San Saturnino martire e patrono di Cagliari, rivelandosi essi attenta disamina dei bisogni insieme morali e materiali del territorio. E va detto che il recente volume Archiepiscopus Caralitanus curato da don Gianfranco Zuncheddu, con una nota di presentazione dell’arcivescovo Giuseppe Baturi e un introduttivo bel profilo biografico firmato da Mario Girau, da pienamente conto di quanto or ora asserito.
Aggiungo che la cennata produzione (quella affacciatasi sulle pagine di Frontiera e del Nuovo Bollettino Bibliografico Sardo) era rifluita, in larga misura, fin dal 1994, in un volume – Scritti di storia civile e religiosa della Sardegna – pubblicato dalle Edizioni della Torre, con prefazione del professor Giancarlo Sorgia, già pro-rettore dell’università di Cagliari. E ricordo altresì che ad un più complessivo, ancorché non completo (ché la completezza in questi casi è obiettivamente impossibile!), repertorio dell’autore si era applicato don Tonino Cabizzosu, al tempo ordinario di storia della Chiesa presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, curando nel 1998 il corposo e prezioso volume Studi in onore di Ottorino Pietro Alberti. Egli elencò allora ben 403 titoli della bibliografia, di cui 16 fra libri e monografie, 244 in quanto contributi ad opere collettive, nonché 55 articoli su riviste e 38 su giornali, 26 fra presentazioni e prefazioni, 21 interventi su materia pastorale.
Mi parrebbe giusto altresì rilevare, per il valore anche sentimentale della cosa, come post mortem – vale a dire nel 2019 – di Ottorino P. Alberti sia uscito un saggio in apertura del volume Nuoro e il suo volto, cui lo stesso presule aveva atteso per lunghi anni insieme con il professor Alberto Caocci per l’editore Carlo Delfino e ricco, oltreché di numerose collaborazioni, di un corredo fotografico di prim’ordine. Titolo: “Nuoro e i nuoresi: l’identità”. In esso, centrale è il richiamo ad una eccellenza religiosa tutta nuorese – il secentesco padre cappuccino Bonaventura (al secolo Antonio Angelo Pirella), che fu il primo evangelizzatore del Congo. Una figura che Alberti, recuperando fonti antiche di tre secoli, aveva brillantemente biografato già su Frontiera nel 1968, ma che giustamente ritenne utile ripresentare a quanti dei… moderni ancora ne ignoravano l’esistenza e l’opera e forse neppure conoscevano la rivista che ne aveva accolto, ormai mezzo secolo fa, quell’abile tratteggio… Per dire poi come, nelle fatiche di uno storico, i materiali – compresi quelli biografici che zampillano di una umanità mai pienamente esplorata – tornano e ritornano sempre, approfonditi e colti per aspetti particolari o perché collocati in nuovi contesti storici e d’ambiente.
In questo mio articolo vorrei dar conto, purtroppo per necessità soltanto con brevi cenni, di alcuni dei titoli presenti nella miscellanea Scritti di storia civile e religiosa, al netto di quelli, già battuti, rifluiti sul Nuovo Bollettino Bibliografico e su Frontiera.
Ne fornisco intanto il dato numerico: si tratta di 14 contributi variamente ricompresi, dallo stesso autore, nelle sezioni “Sulla storia della Chiesa in Sardegna”, “Sulla storia civile della Sardegna”, “Nuoro” e “Personaggi”. Quattro sono gli articoli apparsi su L’Osservatore Romano, uno sulla rivista Divinitas, sei le prefazioni o presentazioni e anche gli originali apporti tematici (per il più in materia di storia nuorese), due i testi di discorsi commemorativi ed un inedito: quest’ultimo risalente al 1971 ed esito di un lavoro commissionatogli dalla Conferenza Episcopale Sarda allora presieduta dal cardinale Sebastiano Baggio.
Il mio focus vorrei puntarlo qui soprattutto ai contributi apparsi sulla stampa religiosa e vaticana, o riferiti alle biografie di ecclesiastici di vario profilo e contestualizzazione storica, prenotandomi per il prossimo anno a completare il regesto (con le pagine tutte nuoresi e l’importante saggio che fu inedito nel 1971).
Credo che una interessata esplorazione di questa produzione evidentemente selezionata dall’autore possa favorire una mirata o miglior conoscenza di don Ottorino nelle speciali, e anch’esse vocazionali, vesti di studioso ed accademico.
Un cenno biografico
A mo’ di cappello, e per un rapido inquadramento biografico, ricorderò che il Nostro, nato a Nuoro nel 1927 da madre nuorese e padre toscano (direttore dell’Ispettorato agrario provinciale), si laureò prima in Agraria, all’università di Pisa nel 1951 e in teologia nel 1957. Nel 1956, dopo aver frequentato i corsi della Pontificia Università Lateranense appoggiandosi al Seminario Romano, anch’esso di storia plurisecolare, era stato ordinato presbitero nella cattedrale di Santa Maria della Neve e nel 1959 – dopo un biennio di incombenze curiali in diocesi e di fresca docenza alle scuole pubbliche nuoresi (a trattar di estimo e materie simili) – ripartì alla volta della capitale: destinazione nuovamente la Lateranense, candidato alla segreteria generale ed alla cattedra di Cosmologia e Psicologia razionale e, quindi, di Filosofia della natura.
Fu allora, dai primissimi anni ’60, che egli avviò una intensissima attività sia pubblicistica (con collaborazione ad almeno una ventina di giornali e periodici) che scientifica. Fra i suoi lavori più impegnativi si ricordano I vescovi sardi al Concilio Vaticano primo, del 1963, e La Sardegna nella storia dei Concili, del 1964, nonché Il Cristo di Galtellì, del 1967, studi tutti e tre usciti per i tipi della stessa Lateranense. E’ del 1993, ma risultato di una ricerca avviata almeno due decenni prima, il doppio volume La diocesi di Galtellì dall’unione a Cagliari (1495) alla fine del sec. XVI, pubblicato dalla 2D Editrice Mediterranea di Sassari. Tutti lavori di cui è facile rilevare la profondità ed estensione della ricerca d’archivio, anche se non tutti – e qui il riferimento è al primo studio della serie – condivisibili nelle linee interpretative sviluppate dall’autore che ancora risentiva di una certa atmosfera di… corporazione curiale e tensioni anticonciliari materializzatesi nella cittadella vaticana allorché Giovanni XXIII lanciò il programma, gli scopi e gli stili della prossima assise ecumenica.
Rientrato nell’Isola nel 1971 per chiamata dell’episcopato sardo che volle affidare a lui la complessa e complicata gestione del Seminario regionale in trasferimento dal Montiferru dopo ben 44 anni dacché ivi fu radicato da papa Pio XI per “mischiare” i giovani chierici di provenienza delle diverse diocesi ciascuna, fino ad allora, “chiesa a sé”, don Ottorino venne promosso vescovo nel 1973, a lui essendo affidate le diocesi unite (e dipendenti direttamente dalla Santa Sede) di Spoleto e Norcia. Fu una missione impegnativa sotto tutti i profili, e della pastorale secondo i canoni ordinari della Chiesa e nella relazione con i soggetti, singoli e/o collettivi, storicamente e idealmente distanti da interessi religiosi, ora culturali (laici e liberali) ora politici o soprattutto sindacali (a larga prevalenza social-comunista). Superò, nei quasi tre lustri della sua permanenza umbra, ogni prova e per questo si pensò, da Roma, di riportarlo, un’altra volta ancora, nella sua terra stavolta nelle vesti di capo della maggiore diocesi metropolitana e, quasi per automatismo, di presidente della Conferenza Episcopale.
Era il 1988 e presto avrebbe ripreso attualità il progetto del Concilio Plenario Sardo, volto a sempre meglio coordinare le esperienze ed i talenti presenti nelle Chiese cosiddette “particolari” della regione, fra Gallura e Campidani, Sulcis-Iglesiente e Barbagie, Logudoro ed Ogliastra, ecc. Allora si distinse egli anche per numerose ed originali iniziative di carattere prettamente pastorale, sostenendo le lotte dei lavoratori afflitti dalle congiunture di crisi produttiva ed occupazionale, ed affermando una distinzione anche culturale della Chiesa diocesana e regionale accanto al suo congenito protagonismo sociale nel sostegno dei più deboli, e tanto più delle cosiddette “nuove povertà” (in esse le tossicodipendenze).
Si ritrasse nel 2003, per superati limiti d’età, e per nove anni fu nella sua Nuoro che, accanto ad una vastissima gamma di relazioni personali da lui costantemente curate, proseguì una molteplicità di studi avviati nel tempo presso archivi e biblioteche, le bozze – almeno le bozze – delle cui conclusioni potrebbero essere rimaste fra le carte da lui lasciate come eredità a noi che con lui abbiamo condiviso la confidenza.
Storie di vescovi antichi e moderni su L’Osservatore Romano
Sono gli uomini, più ancora che gli eventi dei quali essi erano stati o sarebbero stati protagonisti, ma pur sempre all’interno di un campo ben delineato di storia sociale e del costume (come anche la scuola storiografica di Giuseppe De Luca, Giacomo Martina, ecc. ha sostenuto e insegnato dover essere imprescindibile), ad occupare la scena delle rappresentazioni di bella narrativa storica di Ottorino P. Alberti (s’intende qui ricercatore e interprete di carte secolari, non soltanto divulgatore) già intanto nei quattro articoli pubblicati su L’Osservatore Romano – il quotidiano con redazione vicina… di casa della Lateranense – nel 1966, 1967, 1969 e 1970, e tutti provocati da una singolare circostanza di calendario. Merita ripassarne la sequenza.
Il primo – uscito all’indomani della chiusura del Concilio Vaticano II di papa Giovanni e papa Paolo – dedicato a Pio IX (e la Sardegna), il papa santo (?) e terribile che, non rinunciando all’antistorico temporalismo ed ancora fino al 1868 benedicente le teste rotolate dall’implacabile ghigliottina dello Stato Pontificio, volle il Concilio episcopale – quello detto Vaticano I – per ottenerne, a sua imperiosa richiesta, l’affermazione dogmatica del primato papale e della infallibilità del pontefice romano quando, pronunciandosi ex cathedra, sentenzia su questioni di fede e morale. Non fu, quella piina, una presenza priva di riscontri e risultati nelle sensibilità popolari, oltreché clericali, dell’Isola né certamente mancò, pe oltre un ventennio – fra anni ’50 ed anni ’70, e dunque in costanza di regno sardo-piemontese e poi di regno d’Italia – un rimbalzo nella stampa guelfa, da L’Ichnusa (che intercettò la stagione delle apparizioni di Lourdes) a La Lealtà, L’Operaio Cattolico (“giornale del popolo”), ecc. di riferimento al famoso circolo San Saturnino ed alle esasperazioni del povero monsignor Francesco Miglior il predicatore creazionista antidarwiniano.
Il secondo – uscito nel centenario del concistoro, e perciò della formalizzazione canonica della promozione vescovile – riferito alle figure del carmelitano d’origini sassaresi Salvator Angelo Demartis e del fonnese Francesco Zunnui Casula, i presuli assegnati, appunto con quella delibera papale, alle cattedrali di Nuoro ed Ales che almeno un motivo di speciale mutua relazione lo vantavano: perché proprio dalla cattedrale di Santa Maria della Neve (e diretto in Marmilla) veniva Zunnui, per lunghi anni vicario capitolare di forte presenza (come anche il Diario politico di Giorgio Asproni attesta con numerose citazioni). Sia Zunnui, riconosciuto latinista di alto rango, sia il confratello sassarese (detestato e forse odiato da Asproni) si sarebbero schierati, nell’assemblea conciliare del 1869-70, in perfetta obbedienza piina, come invece non avrebbe fatto il terzo vescovo sardo partecipante, vale a dire il “liberale” monsignor Giovanni Battista Montixi, ordinario di Iglesias, che lasciò Roma prima che ci si pronunciasse sull’infallibilità del successore di Pietro.
Il terzo articolo – suscitato dal ritorno di un cardinale nella sede diocesana di Cagliari (il diplomatico vicentino Sebastiano Baggio) – Alberti lo dedicò alla biografia dell’arcivescovo Diego Cadello, il quale condusse la Chiesa locale dal 1798 al 1807 – nel pieno dunque della campagna napoleonica in Italia e della residenza sarda dei Savoia fuggiti, di necessità, dalla terraferma piemontese – e fu innalzato alla porpora da Pio VII nel 1803. Sarebbe qui da ricordare che, posto papa Braschi (cioè Pio VI) in cattività dai “repubblicani” francesi (e costretto in detenzione prima a Siena poi a Bologna, a Torino, a Briancon, e ancora nel Delfinato ed a Grenoble), per mille giorni il presule cagliaritano fu delegato alla rappresentanza della Santa Sede negli affari con il Regno di Sardegna. Si segnalò, allora, egli per ingegno e anche per prudenza, per abilità politica cioè, meritandosi il cardinalato che avrebbe onorato per quattro lunghi e ancora tempestosi anni.
Il quarto articolo che qui segnalo è quello che Ottorino P. Alberti dedicò – nel trigesimo della morte – a monsignor Giuseppe Melas, cagliaritano di Guasila, che fu vescovo di Nuoro dal 1947 al 1970 (e fu anche il presule che lo aveva ordinato presbitero nel 1956, dopo la laurea in agraria). Fu monsignor Melas – altro dotto latinista e molto attivo nelle tornate del Vaticano II (di cui riferiva abbondantemente sulle pagine de L’Ortobene) – un vescovo che s’inoltrò toto corde, lui campidanese, nella realtà rurale delle Barbagie segnata allora da faide familiari e fra paesi della sofferta campagna (si pensi ai contrasti fra orunesi e bittesi) nonché da innumerevoli episodi banditeschi, fra grassazioni e sequestri di persona; con signorilità curiale – bisognerebbe dargliene atto –, egli favorì anche la pacificazione del clero diocesano con la dirigenza del Partito Sardo d’Azione, dopo anni di crude ostilità (tanto più ad Oliena ma anche ad Orani e Sarule, Olzai ed Orotelli, ecc.) espressesi con la negazione dei funerali religiosi e il rifiuto simoniaco (!) dei sacramenti agli elettori sardisti (avversari diretti dei democristiani), nel teso biennio dei comizi prima per la Costituente poi per il primo parlamento repubblicano. (Per evitare confusioni faccio qui rimando ad una pagina di storia che il protagonismo politico lo riconosceva ai Quattro Mori dei Mastino, degli Oggiano e dei Melis che nulla avevano in comune con quelli d’oggi che, senza valore alcuno, neppure di intelligenza storica e coerenza morale, … comunellano da sedicenti nazionalitari indipendentisti con la destra parafascista e leghista e berlusconiana).
I mitrati: memorie e resilienze d’uomini nelle carte d’archivio
A taluna di queste personalità celebrate sulle pagine de L’Osservatore Romano ritorna, lo stesso Alberti, con altri contributi che pure merita di segnalare, anche perché non si tratta mai di passive ripetizioni di quanto già espresso. Dei vescovi conciliari nell’obbedienza piina e tardo-temporalista, pur trattandosi di figure di (individuale) riconoscibile carisma spirituale – in particolare qui dico di monsignor Zunnui Casula e di monsignor Salvator Angelo Demartis – il Nostro fornisce il “racconto di vita” in due distinti momenti: a Fonni (il 13 agosto 1967) nel centenario della consacrazione episcopale per Zunnui Casula e nella circostanza (il 4 novembre 1968) della nuova tumulazione nella cattedrale nuorese per Demartis (in ciò associato al suo successore, il cagliaritano monsignor Luca Canepa che – forse è noto – fu anche onorato nientemeno che da Salvatore Satta nelle sue pagine de Il giorno del giudizio).
Appare estremamente singolare (e potrebbe dirsi curiosa) l’occasione, ma con l’occasione anche la modalità, della faticata ascesa ecclesiastica dei due presuli: perché, sbloccate finalmente – anche per un provvidenziale intervento mediatore di don Giovanni Bosco su Vittorio Emanuele II – le provvisioni vescovili di una trentina di sedi scoperte nelle varie zone dell’Italia nuova (siamo a sei anni dalla formalizzazione della unità del Regno) – Demartis venne ordinato all’episcopato il 19 marzo 1867 nella chiesa romana della Traspontina (dov’era il convento carmelitano i cui studi erano stati da lui retti per molti anni); e fu proprio lui che, appena tre mesi dopo, il 16 giugno, consacrò – nella perfetta logica della “successione apostolica” e nella cattedrale di Santa Maria della Neve – il confratello (destinato ad Ales). Clamorosa manifestazione – si direbbe oggi – di resilienza della Chiesa che, a torto o a ragione (e invero un po’ a torto e un po’ a ragione) si sentiva pressata dalle nuove leggi statali e sgradita alle istituzioni liberali del Regno. Confermando nella prova i propri statuti e se stessa come fonte originaria di diritto, essa guadagnava qualche tempo – magari in vista delle consapevolezze circa la questione sociale – ma, incrostata dalla sua storia di potere, certamente non riusciva ancora a scoprire negli indirizzi evangelici la leggerezza della sua testimonianza: tant’è che ancora alla fine di quello stesso tribolato 1867 i garibaldini che sognavano Roma furono fermati a Mentana, che un anno dopo ancora il patibolo funzionò per Monti e Tognetti, e che ancora tre anni dopo non fu l’abbraccio cristiano ad accogliere i soldati italiani che liberavano Roma dalla sua millenaria teocrazia ed a Porta Pia morì, con altri suoi giovani commilitoni, il sardo tempiese Andrea Leoni.
Così i titoli: “Nel centenario della Consacrazione Episcopale di S.E. mons. Francesco Zunnui Casula” e “Mons. Salvator Angelo Maria Demartis e mons. Luca Canepa vescovi di Nuoro”. Lunghe esposizioni – quelle orali davanti a numeroso pubblico e rifluite poi sulla carta – marcate da una evidente e ben comprensibile empatica relazione dell’oratore con i suoi eroi che, Asproni o non Asproni, e pur all’interno delle ristrettezze ideologiche di un tempo avaro, grandi meriti ebbero nei loro lunghi apostolati (36 anni Demartis a Nuoro, 31 anni di cui sette ad Oristano, per successiva promozione, Zunnui).
E’ ben chiaro e va ripetuto che, come in tutte le biografie, è il grande scenario di vita sociale o del costume e politica che viene riproposto nei combinati tratteggi del… prim’attore. E la Chiesa come frazione del mondo, non cupola del mondo, la Chiesa come semilavorato e non come prodotto finito, è stata sempre – lo racconta la storia – un chiaroscuro: con bassezze inimmaginabili (anche oggi) e con luci assolute ed inarrivabili (e d’ieri e d’oggi). Tutto sta a comprender questo, che nella storia cioè noi tutti si entra con potenziali e insieme con freni e carico di contraddizioni. “Umanizzare” la Chiesa – o meglio: gli uomini di Chiesa, salvandoli dalla loro artificiosa sacralizzazione (con certissima deviazione nell’autoreferenzialità) – sarebbe anche, a mio avviso, il modo migliore di comprendere ed infine amare, amare sul serio, da parte degli stessi cristiani, la loro comunità spirituale… E dunque?
Così come l’ostinazione temporalista e la chiusura dogmatica di una certa Chiesa che, osannando Pio IX, condannava il Rosmini oggi beato (e beato certamente con più carati di Mastai Ferretti: beato Rosmini come presto saranno beati don Tonino Bello o padre Turoldo o don Milani, in vita perseguitati e feriti dai loro stessi confratelli prigionieri dell’insolente conformismo clericale), o metteva “in dottrina” l’unità politica dei cattolici italiani caricando strumentalmente d’ogni ignominia l’avversario lussiano (per i suoi postulati divorzisti od anticoncordatari, aggravati dal matrimonio civile del Capitano con Joyce e dal mancato battesimo del piccolo Giovanni), certamente infelici ricadute nella pedagogia evangelica aveva generato, nel tempo della controriforma soprattutto, la guerra episcopale per il primato metropolitano fra le sedi di Cagliari e di Sassari (materia di cui Alberti si era più volte occupato).
Cito la circostanza perché, a questa connesso, giusto all’indomani della conclusione del Concilio di Trento, ebbe corso, nel nord isolano, il governo ecclesiale di don Alfonso De Lorca, del quale il Nostro trattò con abbondanza di supporti documentari in un saggio uscito, nel 1965, su Divinitas, dal titolo “Le relazioni triennali di don Alfonso De Lorca, arcivescovo di Sassari, alla Sacra Congregazione del Concilio (1590-1600)”: s’intende quel De Lorca, spagnolo di Cartagena, e già inquisitore generale in Sardegna, che… arrabbiato si divertì a «depennare la qualifica di primate di Sardegna da tutti i documenti che gli pervenivano da Cagliari», riferiti perciò al suo collega arcivescovo Del Vall, che a Castello s’era insediato nel 1587, lui spagnolo di Cogolludo. Spagnoli entrambi e padroni in terra sarda, l’uno contro l’altro alla ricerca del posto d’onore, non dell’ultimo banco, alla cerimonia delle nozze di cui dice il Vangelo.
I tempi di monsignor De Lorca sono quelli stessi di almeno sette pontefici, in successione a Roma a partire da (san) Pio V il papa di Lepanto e del rogo che abbrustolì a Toledo Sigismondo Arquer. E lo sguardo dell’arcivescovo di Sassari, uomo dotto e certamente anche religioso, molto restò prigioniero delle logiche di potere nelle quali la Chiesa aveva schermato se stessa, allora anche nei confronti del potere civile (spagnolo) indocile esso pure, nel sostanziale sprezzo – salve le elemosine – dei ceti più poveri. Ne fanno fede appunto le relazioni del presule alla Santa Sede che, ad ogni modo, neppure potrebbero essere ridotte a poca cosa: a De Lorca andrebbe, sul piano strettamente ecclesiale (ma con espansioni nella pastorale e dunque anche nella educazione popolare) il merito di ben due Concilii provinciali, cioè di Sassari con le diocesi suffraganee (e si consideri che la circoscrizione di Bosa era retta allora nientemeno che da monsignor Gian Francesco Fara, storico e geografo di grande rinomanza anche fuori dall’Isola), del lancio del seminario per una migliore preparazione culturale del clero secolare, dell’accoglienza dei cappuccini per la “predicazione sociale”, ecc.
Non passi però questa mia rapida nota senza aver accennato anche alla testata di studio che accolse lo studio albertiano: Divinitas era una rivista di cultura cattolica ispirata alla scuola teologica di San Tommaso d’Aquino e fondata nel 1954 da monsignor Antonio Piolanti, che fu anche rettore della Pontificia Università Lateranense. Ad essa Alberti riservò, per svariati anni, un buon numero di altri suoi brevi saggi, da “La teologia mistica in Gersone” a “Riflessioni su Teilhard de Chardin” (riflessioni porte anche in altra autorevole rivista quale fu ed è, per le ospitate scientifiche, Aquinas), da “Aspetti sociali del divorzio” a “Mons. Ugo Lattanzi: una vita al servizio della Chiesa”, a “Arte e religione nelle opere di E. Cristina”. ecc.
Medioevo bosano e medioevo cagliaritano
Potrebbe scoprirsi un suggestivo parallelo temporale nei culti religiosi (regolati dalla Chiesa) sviluppatisi nella capitale della Planargia e in quella del vasto Campidano meridionale sardo, ed un filo che lega un capitolo all’altro nelle dotte trattazioni di Ottorino P. Alberti qui in rapido scorrimento potrebbe rinvenirsi precisamente in due altri scritti: “La Sardegna e in particolare la diocesi di Bosa nei secoli XI e XII” e “I Mercedari in Sardegna con i loro conventi e la loro opera”. Si trattò in entrambi i casi di una spiritualità importata – quella dal continente italiano, quest’altra dal continente iberico – e radicatasi splendidamente, seppure con diversa presa, lungo molti secoli.
Il primo dei due articoli, che è però successivo come uscita, è apparso nel bel volume di grande formato dal titolo Il IX centenario della cattedrale di S. Pietro di Bosa e pubblicato nel 1974 con numerosi contributi di specialisti e l’introduzione del vescovo Francesco Spanedda, nonché con una preziosa lettera del card. Villot segretario di Stato del papa Paolo VI.
Alberti, al tempo, era già lontano dalla Sardegna, arcivescovo residenziale di Spoleto e vescovo di Norcia ma non volle mancare all’appuntamento consegnando il suo articolo-saggio ricco di ben 62 corpose note. Di esso mi piace richiamare, per l’evocazione sentimentale che suscita, le prime righe: «L’anno 1000, che, stando a diffuse credenze tra il popolo, avrebbe dovuto registrare la fine del mondo, si aprì per la Sardegna nel segno della speranza, anche se le sue condizioni civili e, soprattutto, economiche, risentivano drammaticamente dei danni che per secoli la Sardegna aveva subito a causa delle frequenti scorrerie e dei saccheggi operati dagli Arabi. I Giudicati sardi poco o nulla erano riusciti a fare per rompere l’isolamento…».
Nel gran quadro isolano ecco dunque Bosa, antico centro punico e poi romano: il Castello di Serravalle, voluto dai Malaspina nel 1112, e nello stesso anno ecco l’esordio (prima pietra) del monastero di San Pietro di Scano dei camaldolesi, dipendente dall’abbazia di Saccargia. Il protagonismo religioso si allarga ai monaci di Montecassino che, sostenuti da Comita de Athene e dalla moglie Muscinnonia de Zori di monastero ne fondano un altro, quello di San Michele di Therricellu o di Ferrucesi. E da qui tanto altro poi illustrato, nei suoi studi anticipatori, dal Fara e rielencati da Alberti: abbazie, priorati, e Cabu Abbas o S. Maria di Corte divenuto presto irradiante cuore religioso del territorio…
Entrano nelle grandi partite del tempo nientemeno che Federico Barbarossa e papi ed antipapi, arcivescovi, canonici e giudici di gran storia, condaghes e deliberazioni conciliari del Lateranense III, riunione di trecento vescovi, fra cui due sardi: Comita de Martis e Giovanni Thelle, l’uno di Ampurias e l’altro di Bisarchio. Fino ad arrivare al concilio regionale sardo di Ardara del 1205 ed a quello nazionale di santa Giusta del 1226…
E’ successiva d’un secolo circa, in stretta connessione con lo sbarco aragonese, ed ha per fulcro Cagliari, l’affermazione del mito bonarino, con il collegato servizio religioso offerto dai padri mercedari. Alberti ne tratta anche stavolta con un suo personale contributo di studio conferito al volume Nostra Signora di Bonaria, uscito nell’occasione dei seicentesimo anniversario dell’approdo della cassa miracolosa nelle acque cagliaritane: ricorrenza secolare onorata anche della storica visita nell’Isola di papa Paolo VI.
Anticipato da un articolo uscito sul Nuovo Bollettino Bibliografico Sardo (il n. 68 del 1969) dal titolo “Nuovi documenti per la storia di Bonaria” questo nuovo insiste particolarmente sulle vicende dell’ordine religioso fondato da Pietro Nolasco (canonizzato da Urbano VIII – il papa della condanna di Galileo! – quattro secoli dopo la morte), e le ripassa scorrendole nel tempo fino all’Ottocento inoltrato, e cioè fino alla requisizione di molti conventi, allargando l’obiettivo anche al censimento delle presenze nel territorio isolano e dunque ben oltre le alture di Monreale, Montixeddu e Bonaria: associando quindi alla capitale anche Alghero e Bolotana, Bono e Muravera, Oliena e Villacidro… Un viaggio geografico oltre che storico, tutto di gran gusto.
Chiudo qui questa rapida rassegna. Il buon nome degli scrittori rimane fissato, anche oltre il passaggio generazionale che consuma la memoria, nelle carte che essi ci hanno lasciato.
Un pensiero a don Efisio Spettu
Vorrei dire qui, in chiusura, che un lascito scritto, e di merito degno delle infinite buone opere compiute nel tempo a lui donato dalla Provvidenza, l’abbiamo anche da don Efisio Spettu – a lungo cappellano dell’ospedale oncologico di Cagliari, fratello spirituale dell’UNITALSI, fondatore della comunità di San Rocco, e per quindici anni illuminato rettore del seminario regionale, dunque successore di monsignor Alberti e da quest’ultimo, divenuto intanto arcivescovo e presidente della CES, voluto in quelle funzioni (e non più voluto dal successore che invece un buon ricordo di sé, perché padronale, non ha donato, almeno a mio avviso o secondo la mia sensibilità).
Sì, anche don Spettu – figura nobilissima del clero sardo del Novecento scomparsa giusto un anno dopo Alberti, nel luglio 2013, e cioè dieci anni fa – ci ha lasciato lavori storici e di riflessione soltanto in parte dati alle stampe (mi riferisco agli studi sull’arcivescovo Marongiu Nurra, entrato in conflitto con il governo di Torino per via della nuova legislazione sulle decime, nel 1850, e sul quartucciaio vescovo Raffaele Piras, presule in Abruzzo all’inizio del Novecento). Mi è sembrato doveroso, in questa occasione, associarne la grata (e fraterna) memoria a quella dell’arcivescovo-storico che ho conosciuto ed amato: mai il valore intellettuale degli uomini di Chiesa deve essere derubricato negli apprezzamenti di chi alla loro biografia di apostoli del Vangelo s’appresta. Socialità e cultura costituiscono un binomio nobile in sé e sempre fecondo, e lo vorremmo operativo, tale binomio che sa creare futuro, anche nella politica, non soltanto nella Chiesa.