Si spezzano, ma soltanto all’apparenza, i sodalizi personali costruiti nel tempo quando la morte s’affaccia avanzando le sue ragioni. Perché restano ai superstiti i ricordi che generano riflessioni, ripassi critici, sempre un sentimento di innaturale vuoto, amarezza e anche dolore. Restano, segrete, le considerazioni sulla natura dell’intesa umana con chi è caduto, l’eco delle confidenze liberamente scambiate, quelle consegnate, come a futura memoria, alla carta ed ormai, più sovente, all’immaterialità di una trasmissione digitale, e quelle donate sottovoce, negli incontri diretti, in quelli programmati e in quelli occasionali, con le espressioni dell’affetto intimo e gratuito. E’ stato così, per me, con Gianni Filippini, perché la carta e le email, e le telefonate da casa a casa, lunghe ogni volta un’ora piena, magari per impostare o rettificare un certo libro-intervista su una vita professionale senz’altro di prim’ordine, tutto è rimasto come un tesoro oggi da carezzare e riesplorare. In adempimento pure di una promessa che valeva come un contratto morale, suggellata quella volta a tavola, in una trattoria della Marina dove c’eravamo convocati per parlare di Ovidio Addis, grande figura di pedagogista civile fra Teulada e Seneghe che avevo appena biografato e che lui, Gianni, il direttore Filippini, avrebbe con me dovuto presentare agli Amici del libro, se la tempesta del covid non ci avesse imprigionati.
Con Gianni Filippini ci si era visti ogni domenica, sarà stato per trent’anni, di striscio puntualissimo, ogni domenica, a sa Butanica, giusto di fronte al palazzone dell’Archivio di Stato, in cui egli andava a prendere, per consumare insieme il pranzo familiare, la madre, già dal 1943 – doppiamente terribile 1943 – vedova e privata anche di Maina, pochi mesi prima che del suo Luigi. Non aveva che tredici anni, ed era studentessa ginnasiale diligente come i fratellini di lei più piccoli, Maina che lo strano nome aveva derivato da sua nonna materna Graziani: se ne andò di brutta malattia giusto nel tempo impossibile dello sfollamento iglesiente, a poche settimane dagli sfracelli cagliaritani del 26 e 28 febbraio. Da Domusnovas il corpo della ragazza sarebbe tornato a Cagliari nella primavera 1966, per essere tumulato all’Orto delle palme del nostro monumentale. Quel certo giorno insieme con le spoglie di suo padre, che da Villanovaforru, dove s’era spento ancora giovane, 43enne, erano state richiamate in città anch’esse, e quasi a darsi reciproca e confortante compagnia, affiancate – quelle della ragazza e quelle del papà – al camposanto di Bonaria. E davvero doveva essere destino, questa triste eppure consolante migrazione post mortem, di congiunti, se è vero che anche Maina Graziani, nata a Cagliari pochi giorni prima della santa breccia di Porta Pia e scomparsa nel 1939 a Catanzaro, dov’era stata ospite del figlio Anacleto jr, direttore del locale Consorzio agrario, fu anche lei riportata nell’adorata città pochi mesi dopo la morte.
Una volta, neppure molti anni fa – doveva essere il 2016, e Gianni era ancora il direttore editoriale de L’Unione Sarda – per un lungo tempo d’orologio discutemmo… del suo privato familiare, intendo della rete parentale tanto intrecciata con le dinastie piccolo borghesi del capoluogo e anche con gli uffici di una qualche pubblica responsabilità nel tempo lontano. Privato e pubblico: confrontammo i dati raccolti (destinati ad un prossimo libro e che soltanto oggi faccio uscire dalla cartella) e indugiando fra le molte evidenze d’archivio ed i grafici genealogici che portai al suo esame egli parve bearsi “di passato” come di certo si beava “di attualità”, lui di cuore buono, incrociando e salutando gli innumerevoli bagnanti, nella spiaggia del Poetto dove pure, e prima e dopo l’immancabile passeggiata-e-ritorno d’un chilometro compiuta con la moglie Franca (sposata nel 1961), giusto in riva al mare, puntualmente ci si intercettava.
Le ascendenze erano quelle dei Filippini ma più ancora – figli noi sardi più di madre (di cui però non ereditiamo il cognome) che di padre – dei Mereu, sì più del filone Mereu che di quello Filippini… Bisogna dire che non si trattava di evocazioni tutte liete in sé, concentrandosi anzi in quella rete un numero largo di lutti precoci, invero così come in chissà quante altre case! Sicché aveva ragione di rifletterci sopra, e di commentare… come sorpreso (per il carico compensativo affidatogli dalla sorte), il direttore che gli ottanta li aveva già superati da molto e s’avviava ai novanta (come oltre i novanta era arrivata sua madre Angelina, scomparsa nel 1995, ed ai novanta s’era anche avvicinato suo fratello Giorgio il militare, anzi il generale capo dei carristi: dopo gli studi alla “Nunziatella”, già ufficiale poco più che ventenne, in forza al Car di Avellino ed alla scuola “truppe corazzate” di Caserta, egli avrebbe girato l’Italia anche per i servizi segreti dello Stato: ancora a Legnano, a Pordenone, ecc. ancora nei lunghi e sanguinosi anni delle stragi e del terrorismo rosso e nero).
I lutti e la buona coscienza dei Mereu
Occorreva dire della medaglia d’oro al valor militare di Attilio (zio materno – mai conosciuto – caduto eroicamente nella grande guerra, nel 1917 alla vigilia di Caporetto, e medaglia d’oro al valor militare), tenente/capitano giovane allora di 22 anni soltanto! o dire del nonno Arturo farmacista (padre appunto di Angelina ed Attilio), purtroppo perduto dalla famiglia con cattiva prematurazione, lui all’età di 44 anni, lasciando la moglie Maina ed i figli adolescenti o bambini addirittura, nel 1911… E alla famiglia aveva pensato, lucidamente, il dottor Mereu ormai agli stremi, riuscendo a vendere, ad altro farmacista, il suo spaccio sanitario del Corso, così lasciando qualche briciolo di tranquillità alla vedova ed ai piccoli impegnati nella scuola.
Nella mesta scena delle malattie e dei loro esiti era già entrata, giusto nel passaggio di secolo, Maria Mereu sorella di Arturo e giovanissima, 22enne, sposa di Arnaldo Capra, il dotto direttore bibliotecario dell’Universitaria (allora con sede in rettorato) e docente di lingua tedesca al prossimo liceo scientifico cittadino. Al camposanto ne aveva tessuto le lodi un cugino, Paolo Orano, laureando destinato alla magistratura, anzi all’alta magistratura (avrebbe chiuso la carriera come giudice di cassazione, involandosi quasi centenario nel 1969).
Lo ripeto: uomo del presente che, giunto ormai all’età invidiabile, ancora guardava positivamente al futuro, Gianni Filippini si concesse quella risalita nelle sue cose di famiglia perché, secondo la scaletta che gli proposi allora, fu facile una, due e dieci volte almeno trovare agganci preziosi con la più larga dimensione cittadina, attraversando luoghi professionali e vicende di vita pubblica che potevano anche inorgoglire un discendente.
S’intrigò non poco, con una curiosità prima di allora non appagata, su quel certo bisnonno medico Anacleto Mereu Angius – Anacleto sr. – di nascita antiochese, fatto cavaliere e anche ufficiale della Corona d’Italia, che era stato ospitaliere della loggia Libertà e Progresso, consocio nientemeno che di Enrico Serpieri reduce della Repubblica romana. E, con tutta probabilità, presente fra quelli che portarono il labaro verde il giorno del trionfo proprio del fondatore della Camera di commercio e del Banco di Cagliari, così tanto indispettendo il nuovo arcivescovo Giovanni Antonio Balma. Nel 1902 riuscì ad essere eletto (572 le preferenze), il dottor Anacleto, in Consiglio comunale sedendo a Palazzo di Città. Di lui si ricorda, oltreché per cento questioni strettamente amministrative, l’impegno per l’erezione del busto – fu alto ben cinque metri, di fronte alla stazione ferroviaria ed al cantiere del nuovo municipio! – del filosofo repubblicano Giovanni Bovio…
Portai quella volta, nell’ufficio de L’Unione, un bel dossier delle benemerenze scientifiche di Anacleto (sposato con Antonietta Orano), e di lui trattammo – Gianni Filippini ed io – ricordandolo anche concorrente ad un primariato all’Ospedale civile con Bacaredda (ante-sindacatura) presidente del Consiglio d’amministrazione.
Aveva frequentato, nei suoi anni di formazione universitaria e di cimento professionale, fior di clinici e di scuole chirurgiche – quelle romane di Mazzoni e Pasquali, quelle pavesi di Quaglino e Lovati – ed a Cagliari aveva proseguito assistendo il celebrato ostetrico professor Nonnis… All’università di Roma aveva completato un corso di istologia normale e patologica rivelando qualità operatorie di prim’ordine, anche nell’oculistica… Troppo giovane però, allora, per spuntarla con i concorrenti (Busachi e Desogus, infine preferito a tutti) che lo scarto d’età aveva favorito in quanto al numero e rilievo delle pubblicazioni che… facevano punteggio e che in lui ancora difettavano.
Attilio medaglia d’oro e i due Anacleto
Medico padre di medico – tanto di Attilio sr. quanto di Armando (con ambulatorio a Monastir, dov’è oggi una via a lui dedicata) – e nonno di medico – Delio –, padre di farmacista – Arturo (il già citato nonno materno del nostro direttore Filippini), ed anche della giovane e sfortunata neosposa di Arnaldo Capra, Anacleto ebbe nel novero affollato dei nipoti un suo omonimo (quello andato poi in carriera in Calabria) che pure lui vantò, negli anni giovanili, prima della dittatura, un certo protagonismo nella vita pubblica cagliaritana. Anacleto jr. fu segretario della sezione repubblicana (intitolata a Mazzini) e si distinse per un certo… rigorismo democratico appunto mazziniano che, lontano appunto da ogni diplomazia, contestò pubblicamente le modalità con cui, al Teatro civico del capoluogo, l’avv. Agostino Senes aveva celebrato l’Apostolo genovese nel cinquantesimo della morte. Parve, infatti, a lui (né soltanto a lui), quella solenne manifestazione pubblica un improvvido cedimento alla strumentalizzazione da parte dei nazionalisti (e già… similfascisti) interessati a piegare il magistero mazziniano a retoriche patriottarde… e incredibilmente filosabaude. Il periodico sassarese Il Popolo di Sardegna registrò, nella primavera del 1922, la netta presa di posizione di Anacleto Mereu che, peraltro, fin dalla sua prima adolescenza, s’era segnalato per l’ardore dei suoi ideali neorisorgimentali e… sostenitore della stampa repubblicana di Cagliari (£. 0,005 spedite alla redazione de La Scure nel 1905).
Certamente personalità di rilievo fu Armando Mereu, medico-chirurgo – s’è detto – ma altresì competentissimo in materia di agricoltura e credito agrario, tanto da essere fra i relatori, e di fatto il vero mattatore, al noto congresso sardo voluto dai cocchiani a Roma (in quel di Castel Sant’Angelo) nel maggio 1914. Egli era allora presidente della Federazione delle casse rurali sarde e seppe ben rappresentare, nell’occasione, i bisogni del ceto agricolo isolano, di lavoratori e piccoli proprietari. Se ne andò nel 1937, lasciando un buon ricordo di sé.
Prima di lui s’era arreso suo fratello Arturo (il nonno di Gianni), in età ancora piuttosto giovane – l’ho accennato – ma che la famiglia aveva fatto in tempo a completarla aprendo la discendenza con Attilio l’eroe, classe 1895, che sarebbe caduto a Raccogliano, in una crudele battaglia della grande guerra, di poco precedente alla catastrofe di Caporetto, con i diversi altri venuti dopo. Sì, mettiamola così: primogenito di Arturo e Maina Graziani, Attilio – medaglia d’oro al valor militare (e medaglia di bronzo già per i meriti del suo esordio al fronte nel 1915) – avrebbe visto implementarsi non poco, e in un lungo arco di tempo, la giovane folla domestica: con Angelina (la madre di Gianni) ecco infatti anche Ada, Armando il medico-agricoltore, Anacleto jr il repubblicano prossimo direttore del Consorzio agrario calabrese.
Papà Filippini e la famiglia risorta
Ma nello scambio confidenziale delle biografie avite, non si poteva, giustamente, che immaginare un focus sulla piccola famiglia, quella che una delle Mereu in causa – Angelina, classe 1899, nascita in Villasor – aveva fatto con Luigi Filippini, un certo giorno del settembre 1927, nella parrocchia di Sant’Anna, celebrante lo storico presidente parroco don Mario Piu (l’apripista sardo dei salesiani). Lei radicatasi stampacina, lui fattosi ormai villanovese, impiegato comunale, avevano preso casa in via Carlo Buragna, per scendere qualche anno dopo in un più capiente appartamento della parallela via Sant’Efisio dove alloggiavano anche Tarquinio Sini il disegnatore di mille talenti ed Ina Tanda, l’artista del bel canto lirico, con il loro frugolo (e dove il rifugio di Santa Restituta sarebbe stato per tutti, anni dopo, asilo di fragile sicurezza mentre dalle fortezze volanti pioveva il fuoco sulla città terrorizzata).
Maina – Mimma in famiglia – era venuta nell’estate del 1929, e distanziati di tre o due anni erano poi arrivati gli altri, Gianni e Giorgio. Maina, il suo volto di bambina ancora si ricorda in quei frammenti fotografici che Gianni imprestò a Giuseppe Podda per corredare l’amarcord del felice Poetto negli anni ’30 (Ajò, Su Poettu)… Maina con Gianni e Giorgio nel sandolino, sul bagnasciuga, e alle spalle i casotti, l’architettura vacanziera di Cagliari popolare. Maina con i fratellini ed i cuginetti Puxeddu, e la madre, allo stabilimento D’Aquila. Quella volta nel 1936, quest’altra nel 1938. Il pensiero – ma era il pensiero del dopo – tornava lì, al catino della grande storia, sopra l’estate e sopra il gioco innocente nella spiaggia: alla guerra d’Etiopia, al cartone dell’impero euroafricano del fascismo, alle leggi razziali in perverso affaccio anche in Sardegna.
Cinque mesi dopo Mimma era toccato al papà Luigi. A Villanovaforru. L’Unione Sarda aveva sospeso le pubblicazioni a marzo, dopo un breve tentativo di recupero all’indomani della sospensione per i danni dei bombardamenti di fine febbraio. La vita avrebbe ripreso, al giornale, a novembre, con tutt’altri assetti sia nella gestione amministrativa – assunta allora e per tre anni dalla concentrazione provinciale antifascista – sia nella redazione, con Siotto, e poi Musio e Pirastu direttori e Cesare Pintus per qualche tempo capo-redattore (ma presto sindaco della ricostruzione, e che ricostruzione!).
Lasciato l’ufficio in municipio, Luigi era stato assunto, già da tre lustri ormai, a L’Unione Sarda, addetto ai servizi amministrativi del giornale e segretario del consiglio d’amministrazione della società che Nando, Guido, Baccio e Roberto Sorcinelli con le loro sorelle avevano ereditato dal padre Ferruccio fascista “duro e puro”; un piede nell’ufficio contabilità ed uno in redazione, “elleffe” aveva firmato o siglato molti articoli di sport – tanto più di pugilato, la sua grande passione –, nei lunghi anni ’30 in cui il giornale, formalmente diretto da Raffaele Contu, era stato l’organo fedele della Federazione provinciale del PNF. Così già dal 1926 (quando, trionfando i fasciomori contro i tifosi dello squadrismo, aveva assorbito il concorrente Il Giornale di Sardegna, organo dei sardisti passati alla camicia nera). Era stato anche attivo – lui giovane allora neppure trentenne – nell’impianto organizzativo, oltreché redazionale, de Il Lunedì dell’Unione, affidato alla direzione di Giuseppe Pazzaglia. La sua firma comparve in calce ad almeno una ventina di articoli del settimanale che talvolta si presentava ai lettori con fogliazione azzurrina…
Cedette anche Luigi dopo sua figlia Mimma, in Marmilla. Ma i suoi, al ritorno dallo sfollamento, pur fra incredibili difficoltà, seppero recuperare l’equilibrio familiare, nel sentimento di casa e nell’impensabile vortice della ricostruzione urbana svilupparono, Gianni e Giorgio, diligenza e responsabilità di adolescenti nelle amicizie e nella scuola: mentre la madre insegnava i ragazzi studiavano. Il liceo Dettori era ancora alla Marina, la facoltà di giurisprudenza (ancora comprensiva dei corsi di economia e scienze politiche e con l’autorevole presidenza di Paola Maria Arcari) da qualche anno nella salita del viale Sant’Ignazio. E il 14 novembre 1955, per Gianni, la laurea discutendo la tesi “La controfirma degli atti del capo dello Stato”, relatore il professor Enrico Sailis.
A L’Unione Sarda
Da un anno, quasi due, era però già iniziata l’avventura professionale, che sarebbe stata applicazione di tutta una vita, di Gianni Filippini. Di quegli inizi egli ebbe modo di accennare diverse volte, così come al suo interesse per la magistratura infine sopraffatto dal desiderio di autonomia, di un suo pur modesto stipendio di avventizio… Da lì ecco tutta una serie di offerte di lavoro da lui spedite qua e là, al Comune e alla Provincia o alla Prefettura. Rispose L’Unione Sarda prima della Prefettura: a Terrapieno dal gennaio 1954 s’era insediato come direttore un giovane giornalista proveniente da Roma, che certamente avrà allora chiesto notizie ai collaboratori, magari ad Antonio Ballero e Franco Porru, i vecchi della redazione che bene avevano conosciuto e frequentato Luigi Filippini e potevano garantire per il figlio.
Correttore di bozze e cronista giudiziario e anche, saltuariamente, sportivo… Dopo cinque mesi il primo articolo firmato, in cronaca (occhiello: “Quartieri della città”).
“Come oggi si vive a borgo Sant’Elia” (1° giugno 1954)
Borgo S. Elia non è lontano da Cagliari: un quarto d’ora di pullman è sufficiente a coprire la distanza che lo separa dal centro cittadino. Una apposita linea, la n. 6, collega con sufficiente frequenza (54 corse giornaliere di andata e ritorno ad intervalli varianti da un minimo di 7 minuti ad un massimo di 23) le cliniche mediche a questo periferico quartiere.
Borgo S. Elia si poggia su l’omonimo promontorio che delimita a sinistra l’insenatura del porto di Cagliari. Le sue casette fitte fitte, quasi l’una attaccata all’altra, non impediscono la vista del mare, piatto al riparo dei monti che chiudono al di là di esso un ampio orizzonte. Cagliari è vicina, ma di essa non giungono gli assordanti rumori. Tutto è tranquillo a S. Elia.
Ma allora S. Elia è una amena località verso cui indirizzare il forestiero in cerca di naturali bellezze? No, assolutamente.
La natura generosa nell’elargire i suoi doni si è vista soprafatta da una tenace quanto inspiegabile volontà di fare di Borgo S. Elia un tutt’altro che invitante sito. Le casette minime dal discutibile gusto, dai colori impossibili nella loro assurda vivacità sono la prima stonatura, e la più grande. In esse vivono, per la maggior parte, esemplari di una umanità quasi sempre ignorata o dimenticata, che son venuti a stare a S. Elia, alcuni come estremo rimedio alla ben nota carenza di alloggi, altri come estrema ambizione. Sulle soglie di queste casette donne dai volti inutilmente truccati a nascondere impressionanti pallori. Davanti ad esse bambini e bambini a decine, ammasso di stracci su esili corpi denutriti. E sulla piazza uomini dai volti scuri, patiti, nello accasciamento morboso e irreflessivo, proprio degli incolpevoli che subiscono un immeritato castigo. Su tutti questi volti si legge la più drammatica protesta alla disoccupazione o alla saltuaria ed incerta occupazione.
Alcuni spacci di vini, un tabacchino, due o tre negozi di verdura rappresentano il commercio a S. Elia. Tisico commercio che vive sul credito troppo spesso non soddisfatto. I prezzi ne risultano eccessivamente maggiorati, la varietà della merce ridottissima, le norme igieniche rispettate con poca buona volontà (peraltro non stimolata da frequenti controlli degli agenti del servizio sanitario).
Ma S. Elia non è tutto qui. In esso non vivono soltanto pescatori e disperati. Da un anno a questa parte specie per la costruzione di cinque palazzine del Genio Civile ed un lotto di case del Comune, vi vivono famiglie di impiegati, giovani coppie al loro primo alloggio, cittadini insomma che, come abbiamo detto, son venuti a stare in questo quartiere come estremo rimedio alla impossibilità di trovare un alloggio a fitto accessibile.
Per gli uni e per gli altri, per quelli che in S. Elia hanno dimenticato le grotte e gli insani tuguri e per quelli che in S. Elia hanno risolto temporaneamente il problema di avere una casa, il Comune deve provvedere.
Curare la regolarità dei servizi di nettezza urbana, spostare lo sbocco delle fogne ad un punto che non sia a cento m. dall’abitato, costruzione di case (magari minime) onde poter demolire il vecchio Lazzaretto che per promiscuità di vita e per assenza completa di servizi igienici è veramente un potenziale focolaio di malattie infettive, ci paiono le necessità più urgenti.
In seguito potrà chiedersi l’allontanamento degli ovini che pascolano fra le case, la installazione di fontanelle, il servizio postale bigiornaliero e magari un ufficio postale, la costruzione di una chiesetta e tante altre piccole cose.
Ormai Borgo S. Elia è un fatto compiuto. Deturpata irrimediabilmente la magnifica zona, l’unica cosa da fare è non peggiorare ulteriormente la situazione. Ma cosa più importante, vorremmo che le casette di S. Elia non ci offrissero più un drammatico spettacolo di miseria. Vorremmo vedere donne sorridere, e bimbi decentemente vestiti sui corpi robusti. Non vorremmo leggere sul volto degli uomini il rancore e la disperazione, ma la riconoscenza e la tranquillità che viene dal lavoro.
A L’Informatore del lunedì
La collaborazione redazionale era naturalmente condivisa con la testata-figlia de L’Unione, con L’Informatore del lunedì che, fondato nel 1946 da Giuseppe Susini, in qualche modo riprendeva quel Lunedì dell’Unione cui aveva prestato tanto lavoro anche suo padre. Su L’Informatore, Gianni Filippini avrebbe pubblicato, fra novembre e dicembre del 1954, diverse cronache sportive (“Piegati dagli universitari gli algheresi”, “Pareggio all’Amsicora per un gol inventato di sana pianta dall’arbitro”, “Primi orientamenti dopo sei giornate: promozione regionale”, “Occorre incrementare il calcio in Sardegna: sui campi minori”, “Il Bosa travolto dal CUS”) e, già ad ottobre – nella pagina della cronaca cittadina –, un più impegnativo contributo dal titolo “L’Università di Cagliari non fa eccezione alla regola: la crisi degli studi superiori”.
Di tutta evidenza l’analisi di una realtà ben conosciuta perché vissuta in prima persona.
La stura l’aveva però fornita, alcune settimane prima, un gustoso articolo di costume, corredato da sei grandi fotografie di… bellezze al mare, che proprio ad un reportage (anonimo e chissà che non fosse di mano proprio di Luigi Filippini!) faceva riferimento e che Il Lunedì dell’Unione aveva accolto giusto un quarto di secolo prima. Eccolo di seguito, nell’alternanza dei tondi e corsivi, con l’allusiva e divertita firma “Gianni”.
Esordio della stagione balneare (12 luglio 1954)
Quando viene la sera del sabato, sulla pista del Lido si balla. Entra una signora ancor giovane, le labbra sbottonate alla Marilyn Monroe. Ha l’espressione tesa e scontenta.
-Che ambiente! – bisbiglia ad un vicino.
-In che senso?
-Si vede solo gente navigata, qui. Neppure una signora della buona società.
-Dice lei. Ha guardato dietro i casotti?
La storiella è deplorevole e immaginaria. Dimenticatela.
Quando viene la sera del sabato, il Lido formicola di trepide sedicenni e di madri oppresse dal sonno. Al bar, pesche e cognac. Poi la notte si fa bianca, qualche mente s’annebbia, i bicchierini di cognac aumentano di venti lire. I più bevono sciroppi d’orzata e di tamarindo.
***
Quel che segue tra virgolette è stralciato da una interrogazione al Sindaco dell’agosto scorso. Il consigliere Guidi chiedeva «come il Comune intende garantire alla cittadinanza un più equo trattamento da parte dei sub-concessionari che gestiscono gli stabilimenti onde soprattutto evitare che l’aspetto speculativo soffochi ogni altra considerazione di carattere igienico e turistico. In particolare si rammenta che, nel passato, uno stabilimento balneare si distingueva per le coraggiose iniziative prese per favorire il pubblico con spettacoli di prosa, di rivista, cinematografici, mentre sulla terrazza a mare una orchestrina piacevolmente intratteneva il pubblico durante gli intervalli degli spettacoli. Invece oggi nulla più di tutto questo avviene, mentre il rendimento ottenuto dai subconcessionari è notevolmente aumentato dal trasformare gli stabilimenti in pollai». Non risulta che contro il dott. Guidi sia stata sporta querela: dai padroni di pollai, s’intende.
***
«Il mestiere di cronista balneare è per me un mestiere antipatico. Orribile. Non posso concepire un uomo che perda tempo a correr dietro alle infinite futilità di cui è piena una spiaggia mondana, preoccupandosi di non lasciarsi sfuggire neppure un pettegolezzo; ansioso di conoscere tutte le avventure piccanti o sentimentali, notando nel suo taccuino il colore di un pigiama, la foggia di un cappello, la boutade di un imbecille, i nomi di tutti i bagnanti, di tutte le bagnanti. Ieri sera, sulla rotonda del Lido, abbiamo notato…».
(La rotonda? Sì: ma è cronaca di ieri. Del cronista di allora – è il 18 agosto dell’anno 1930: ed esce il “Lunedì dell’Unione” in carta azzurrina – resta un autoritratto di poche righe: «un tipo strano, che si permette di portare, in mezzo alla loro vita facile e gaia, il suo fastidioso malumore». Parla di vita facile, di vita gaia, riferendosi naturalmente a coloro di cui ha notato il pigiama cappello e boudates. Si preparava in quei giorni lontani il «ballo del ventaglio», organizzato a scopo benefico da un «attivo gentiluomo». Prezzo: dieci lire. «E dieci lire per avere un ventaglio, un gelato, un ballo e la visione del più simpatico turbinio di giovinezza!»).
«Per scrivere un articolo sulla vita balneare cagliaritana non è assolutamente necessario recarsi al “Poetto”. Chi non conosce ormai la vita balneare cagliaritana nei suoi più insignificanti particolari? Chi non sa ormai a memoria la vita mondana che ogni giorno sempre uguale, si svolge su quell’incantevole spiaggia? Preparata la carta, intinta la penna, accostata la sedia al tavolo, socchiusa la finestra per attenuare la calura, l’articolo si può scrivere meravigliosamente, senza trovare difficoltà alcuna. Immagini e ricordi vengono alla mente senza bisogno di faticare a cercarli; con il mare azzurrino, con il suo sole i suoi casotti, i suoi villini, il suo largo viale – mondo scintillante e festoso – il Poetto appare innanzi agli occhi quasi come nella realtà. Il Poetto, elegante spiaggia alla moda».
(Lo direste pessimista, oggi, uno che scrive così del Poetto? Eppure il vecchio collega non è di carattere facile. «Mi pare che tutti gli occhi si fissino su me, sul mio abito nero, sul mio viso triste». Ciò che non basta ad attenuare il suo entusiasmo per il Poetto, elegante spiaggia alla moda. La tecnica carceraria, con le palizzate, i cavalli di frisia, i cellulari ed i campi riservati, non aveva ancora depauperato l’arenile).
«Dicono che la stagione balneare al Poetto sia cominciata da un pezzo, che la vita mondana sia nel suo pieno fulgore. Ed io, annalista del gaudio altrui, debbo in queste colonne riferire ecc. ecc.».
(Il vecchio cronista può registrare tante cose. Ma noi?).
***
La stagione balneare non ha mai avuto un inizio individuato con precisione. Ad un certo punto ci si accorge che è incominciata. Non si sa quando. Si prende il tram in un momento di noia e ci si ritrova tra gente abbronzata, venuta al mare come per una lunga consuetudine. La pelle si arrossa d’un tratto; e di sera, coi i primi bruciori, si porta a casa la convinzione d’aver scoperto la stagione balneare. Così ogni anno, senza alternative e senza varianti. Il mare lo si comincia a sentire nelle vetrine dei negozi, quando vi compaiono i costumi, i prendisole, gli specifici contro le arrossature, gli ombrelloni aperti sotto i raggi di un riflettore. Un leggero strato di sabbia – concessione estrema all’estro del vetrinista – riporta ad una più comunicativa evidenza tutto quello che sa di naftalina e di confessione in serie. Poi, ad un tratto, le vetrine sono superate. Sono superati anche gli unguenti “per abbronzare la pelle senza arrossature”, quelli che, come la pietra filosofale, vengono ricercati, attraverso esperienze continue, di anno in anno, senza che mai si riesca ad eludere l’unghiata del sole. Si ha già la pelle bruna. Si è stanchi di giornate sempre uguali sulla spiaggia. E la stagione si snoda, sino ad agosto, sino a settembre. Ma sempre si aspetta l’imprevisto di feste, di iniziative, di novità che esistono solo in un desiderio nebuloso, senza contorni e limiti precisi. Tanto quanto basta a non spegnere sino alla fine la prospettiva di giorni inconsueti.
***
Dal decalogo del bagnante: «Se siete sul punto di annegare, annegate con dignità e compostezza. Evitate di gridare al soccorso, di sbracciarvi scompostamente, di agitarvi senza misura. Sorridete diplomaticamente, salutate gli astanti e poi scomparite pure tra i gorghi, evitando di mandare in superficie le solite bollicine d’aria. Ciò è indice di buona educazione».
***
Ristoranti al Poetto; e conti da sbalordire con addenti che all’incirca risultano così concepiti: «Tanto per gli alimenti, tanto di percentuale per il cameriere; poi il mare a due passi, l’ampio orizzonte ed aldilà dell’orizzonte i pascoli dell’oblio, lo smarrimento, la sensazione del nulla e il fil di fumo che un bel dì vedremo; poi la brezza che riempie la sua camicia, avventore; poi il maestro che improvvisa e l’orchestra che tace per ascoltare la voce del tuo cuor; poi l’ambiente, selezionato; poi il lampo di approvazione per la sua esuberanza fisica da me, esercente, sorpreso nello sguardo di una duttile fanciulla. Totale: una cifra che confuta ogni ragionevole aspettativa». Comunque lo rivoltiate, il conto non torna. Ma dovete pagarlo.
Da anni cerco notizie della famiglia Mereu, da Anacleto a Armando medico contadino a Monastir, a Delio. L’articolo molto interessante, saltano fuori dei personaggi non definiti e che creano un po di confusione. Se fosse possibile avere la documentazione fotografica di questi personaggi o qualsiasi altra notizia.
Ringrazio