Non le sentiamo come semplici pietre e neanche come reperti archeologici. Nel primo caso, avvertiamo il nome generico di cosa come il “Lei” rivolto a un parente; nel secondo, ci pare di condannare alla storia ciò che ci è sempre presente.
Noi sardi cresciamo con le pietre, con tutte le pietre, ma queste le accarezziamo, queste sono spirito. Quando da ragazzi si va in campagna e ci si imbatte in loro o in un nuraghe, subito si tace e il luogo si fa mistico, vissuto, perché noi sappiamo che il corpo è apparenza.
Noi sentiamo l’odore del basalto.
A noi i licheni, con la loro alleanza e i loro colori, la loro resistenza e povertà, ci risultano parenti stretti. E i licheni si attaccano a queste pietre più che ad altre.
Noi sentiamo l’odore del granito. La Gallura ha un suo profumo per questo.
Le pietre delle antiche credenze, del primo sguardo che non si è rassegnato alla morte e non ha voluto credere che tutto finisca con la morte, ma che con la morte sia sepolto solo il peggio di noi, queste pietre sono simboli dell’anima, come le piante, come gli alberi. Papa Gregorio Magno, che ci considerava pagani perché adoravamo pietre e alberi, non aveva capito che noi sapevamo e sappiamo che una pietra è una pietra e un albero un albero, ma quando lo trasformiamo in un simbolo di altro, dell’Altro cui aneliamo, non sono più solo pietre e alberi. Sono poesia, desiderio, modelli, interpretazioni, porte su ciò che ci piace, che è l’infinito.
Noi queste pietre cariche di significato ce le portiamo nella vita, nel tempo, le usiamo, non le veneriamo perché le sentiamo vive.
La bellezza della mostra di Olivo Barbieri al MAN di Nuoro (4 marzo – 25 giugno), voluta e prodotta dalla Fondazione di Sardegna, sui menhir e sui dolmen della Sardegna è bella e struggente non perché è opera di un grande artista e fotografo, ma perché è intelligente, perché è ermeneutica, perché ha capito che i menhir sono in mezzo a noi, perché il nostro passato irrisolto ci vive dentro e a fianco. Noi non monumentalizziamo, nel bene e nel male, noi inglobiamo, ci portiamo tutto dietro, nelle campagne silenti e di lato alle villette, negli stipiti delle jacas di ingresso alle tanche, come nei muri di recinzione. Noi ci portiamo dietro il passato come Rodrigo Mendoza si portava dietro le sue armi in Mission. Noi sentiamo i morti come vivi.
È una mostra sul tempo, che in Sardegna, per ribellione antica, non esiste (non a caso il video promozionale inizia con la ripresa della foto di un orologio sgangherato appeso a una parete di Ortueri).
Infine, un particolare: la luce. Tutte le foto sono prese a mezzogiorno o giù di lì. Ombre corte. Colori veri. Luce autenticamente mediterranea. Noi conosciamo sa mama ‘e su sole. Noi sappiamo che le ore calde, nelle isole, in tutte le isole, sono ore di passione, di follia, e anche di malvagità. Ma sappiamo anche che se si ha la ventura di stare sotto un albero, da soli, in silenzio, con la luce intorno e un alito di vento, ci si copre il viso perché si sa che passa Dio. Queste foto sono fatte allora.