Ieri la mia università mi ha mandato in una scuola superiore, per tenere una lezione a ragazzi tra i 16 e i 17 anni.
Mi sono preparato con cura.
Ho predisposto testi, video, immagini.
Ho sentito una responsabilità aggiuntiva rispetto a quella ordinaria delle lezioni universitarie.
Alle 8.45 ho varcato i cancelli della scuola. È stato come tornare indietro di trent’anni, quando iniziai a lavorare proprio nelle scuole superiori dell’Isola.
Il primo impatto è sempre con le cose ed è stato esattamente uguale a quello provato ai miei esordi. Le scuole non sono edifici brutti, o trascurati e non manutenuti. Ma non sono quasi mai edifici belli. Non sono mai edifici sporchi, ma non sono quasi mai edifici perfettamente puliti. Non si capisce perché, ma allora come oggi, l’ingresso in una struttura frequentata da tanti porta le cicatrici del luogo non riconosciuto come proprio da nessuno, di un luogo di residenza obbligatoria e temporanea. E mentre camminavo nel vialetto d’ingresso, mi riecheggiavano nella testa le magnifiche parole di Napul’è di Pino Daniele: Napul’è una carta sporca / e nisciunu se n’importa.
Aula magna. Colpo d’occhio notevole, ma poi arrivano i dettagli. Il proiettore è un po’ vecchio, l’audio non è dei migliori (e per una lezione di storia della lingua e di linguistica non è il massimo), ma il personale è cortesissimo e efficiente (ottima la raccomandazione di usare i bagni prima della ricreazione): tutto viene sistemato. Insomma, quella maledetta sensazione di precarietà e fragilità provata sulla soglia, si rafforza.
Poi arrivano i ragazzi.
Forse io leggo troppi testi medievali; forse porto le tracce della mia ribellione al decadentismo – una piaga – di quando i miei colleghi leggevano Huysmans e Wilde (qualche altro, per devozione alla terribile e razzistissima docente di allora, si acconciava a leggere il grande plagiaro D’Annunzio) e io ostentavo il volumetto del Piccolo principe, riconosciuto da Gide come la reazione epica alle muffe del compiacimento del crepuscolo, ma continuo ad amare il coraggio, la libertà, l’eroismo della gioventù.
Guardo i loro occhi. Li cercavo ridenti e selvaggi, come quelli di Perceval prima del duello col Cavalier Vermiglio, e li ho trovati schermati, diffidenti, mascherati di stanchezza e sazietà, senza un perché.
Le posture. Le posture erano manifesti di stati dell’anima. C’erano gli sdraiati; c’erano gli sguaiati; c’erano i composti freddi e i composti vitali; c’erano gli spiritosi ansiosi; c’erano i diffidenti. I più attenti stavano rigorosamente in posti non accessibili a uno sguardo diretto: dovevi cercarli.
I docenti erano guardinghi; solo alcuni mi hanno salutato e solo alla fine la maschera d’ufficio si è sciolta in un sorriso.
C’era un’assente: la speranza. Tutti abbiamo fatto la nostra parte, ma senza speranza, come se stessimo assolvendo a un rito obbligatorio.
Ieri ho avuto la conferma del perché in Sardegna non nascono più bambini.
Poi, alla fine, mentre rimettevo il mio computer nella borsa, è comparso un ragazzo, con gli occhi vivi e vivaci, dritto di schiena e d’animo, a chiedermi dove insegnassi e a guardami in faccia da vicino. Perceval aveva preso il cavallo, si era staccato dalla turba ed era venuto a salutarmi. Sono andato via con una speranza.
Ieri ho ascoltato alla televisione un’intervista alla giovane ingegnere che ha rifiutato di lavorare per 700 euro. Mi aspettavo una difesa dei diritti dei lavoratori, un’analisi della precarietà. Niente di tutto ciò. Una serie di frasi ripetute e sentite tante volte.
Dall’altra una ministra spagnola che in modo convincente fotografava gli estremi del capitalismo selvaggio e le azioni correttive della politica. Ecco, a giovani, anziani e vecchi io consiglierei di informarsi.
Ai giovani di non cadere nella trappola della lotta fra generazioni. Non esiste qui. Ci vogliono far credere sia così. Ed anche di non offendersi se si parla di loro non sempre elogiando. Io ho scoperto che chi loda in presenza i giovani, quando loro non son presenti li deride.
che piglio, sig. Usai
mi pare che il professore abbia coinvolto anche la propria figura in quel sentimento di mancanza di speranza, il che che non vuol dare nè dello stronzo a nessuno nè pretendere la verità in tasca, ma solo registrare una sensazione, più o meno motivata, più o meno condivisibile.
piuttosto dal commento del sig. Usai mi pare che emerga soprattutto l’ansia di manifestare astiosità nei confronti del blogger, puntualizzata nella stroncatura impietosa della sua figura di educatore (it’arrori!)
http://www.itclevi.it/
Il link sopraindicato riporta un lavoro ideato e realizzato da mia moglie ( professoressa universitaria in Medicina) e dalla sua collega le quali sono andate nelle classi, hanno lavorato con i ragazzi ed i loro desiderata sono stati discussi nel consiglio d’istituto. Un altro modello è possibile! È un modello di lavoro che si può replicare nelle carceri, negli ospedali, nei tribunali ecc. I ragazzi sono molto più di quello che sembrano. Noi adulti siamo nella fase della vita in cui dobbiamo dare e se possibile, dare più di quello che abbiamo ricevuto. I ragazzi sono nella fase della vita in cui devono ricevere, imparare, assorbire. Il corto circuito si crea quando gli adulti abdicano al loro ruolo ed ai loro compiti. Professore sono d’accordo con lei quando in chiusura richiama la speranza. È proprio così! Il lavoro fatto da mia moglie, è l’ennesima dimostrazione di questo.
Gentile professore, credo che la speranza siano gli adulti a levarla ai più giovani, per esempio quando parlano male di loro. Quando parlano di loro e non con loro. In queste righe, lei parla di coraggio addirittura cavalleresco. Bene, lei non è stato né coraggioso né cavaliere a tratteggiare questa immagine, del tutto soggettiva, dei giovani che ha avuto lì ad ascoltarla per poche ore. Non è stato coraggioso perché queste cose non le ha dette direttamente a loro. Si metta nei loro panni, ma anche dei loro insegnanti: come si sentirebbe ora a leggere queste sue parole? Gli alunni non sono un mezzo ma un fine come, in generale, gli esseri umani. (Questo l’ho imparato studiando Kant, al Liceo, quando ceravo “il perche” della vita, proprio come gli adolescenti da lei tristemente descritti. Da allora non ho mai smesso di cercarlo questo perché. E lei?)
Credo che il post del prof. abbia privilegiato una scrittura narrativa impressionistica a bella posta. Che non pretendesse di essere un saggio accademico. Mi pare abbia suscitato un bel dibattito.
Una giusta conclusione è che tutti, mi permetto di aggiungere alcuni più di altri, siamo colpevoli.
È anche vero che siamo in tanti a lottare, ed alcuni dicono contro i mulini a vento.
Dovrebbe esserci una radicale volontà di costruire e costruire bene. Finché non c’ è, bella questa discussione.
Io invece trovo il suo post pessimo: lei si pone “ex cathedra” e in poche ore decide che chi ha davanti non ha speranze, non ha un perché nella vita, siano essi alunni che docenti, risultando offensivo verso entrambi. Non si pone il quesito che forse sia proprio lei che, da principio, sia entrato senza sapere perché in un mondo di cui ha vaga memoria e le cui attuali dinamiche le sono ormai ignote, assolvendo ad un rito obbligatorio. Forse non doveva preparare solo video e immagini, ma anche la “testa”.
L’apice poi è che da una pseudo lectio magistralis abbia capito perché in Sardegna non nascano più bambini. Forse su quest’aspetto bisognerebbe ragionare di più su ruolo e colpe della classe dirigente, di cui lei stesso ha fatto parte, non trova? Le suggerirei di tornare in quella scuola che l’ha ospitata e chiedere scusa.
Se questo è un educatore….
se il dubbio è che sia la scuola a non adempiere il proprio dovere ad educare alla speranza credo che non sia così.
la scuola forse è debole perchè sola
sono venute a mancare le altre agenzie educative dove si parlava, si discuteva, si dicevano anche enormi cazzate ma c’era chi ce ne faceva rendere conto: oratori, associazioni, circoli di partito e soprattutto quella grande sede di confronto che era la strada.
anche la famiglia spesso rinuncia al confronto interno, ma non al grande educatore…
per fortuna c’è il grande dio smartfon, che a velocità pazzesca tutto vede e a tutto provvede, ci informa, ci indirizza, ci fornisce il prezzo, l’opinione pronta, il numero di passi, le calorie consumate, il cervello ancora da consumare, i peli del culo rimasti…
che culo!
Caro Professore
I ragazzi che descrive sono la risacca di ciò che è la società in cui viviamo.
Sono “noi”, con diversi anni di meno e molti strumenti in più, che non abbiamo né imparato né insegnato ad usare.
Una lingua e codici diversi ci dividono, e la ringrazio per lo sforzo di provare a creare una amalgama in cui la parte più insolubile non credo stia nei nostri figli.
Non molli le uscite fuori porta.
Nonostante tutto, ho grande fiducia nei giovani studenti. Quelli silenti spesso sono i più vivi. Se non ci fossero loro non spererei nel futuro.
Paolo, per esperienza so che anche il più piccolo seme lascia una traccia. Quando mi telefona proprio quell’alunno che m aveva dato così tanti problemi e che si sta laureando proprio in giurisprudenza e mi chiede consigli sull’argomento da scegliere, allora penso che a qualcosa è servita la mia dedizione all’insegnamento. Vedrai che qualcuno di quei ragazzi lo ritroverai in facoltà 😌
Quanto scritto viene dal cuore e anche uno solo che si avvicina e chiede è un successo. Seminare è difficile ma anche un piccolo raccolto è un buon inizio per un grande raccolto.
Ma siamo sicuri che gli studenti di una volta fossero così curiosi, selvaggi e interessati al mondo della scuola? A me non risulta. Forse prima, se non stavi composto sul banco, (anche se non ne avevi voglia e volevi fuggire via) ti arrivava una nota o un urlo del professore. Oggi nessuno ti dice niente, ed è sicuramente un male. Ma la noia, la routine delle materie scolastiche, dei compiti, dello stare seduti per ore in un banco, quelle sono sempre le stesse.
Le faccio i complimenti per la descrizione impeccabile dei luoghi, delle strumentazioni, dei corpi. Per un attimo ho avuto la sensazione di essere in una sua tasca e di entrare con lei nell’edificio. Non condivido le conclusioni. La speranza non era quel ragazzo. Tanti ragazzi l’hanno ascoltata e tanti porteranno i suoi discorsi nei propri universi semantici, anche se non hanno avuto il coraggio di mostrarlo. Ma, ad ogni modo, la speranza non sono loro la speranza è lei e chi, come lei, sa interrogarli, metterli in crisi, aprire le porte del cambiamento. Quanti adulti lo fanno? A quanti fa comodo che non crescano?
Nell’attuale scuola superiore, se non si vuole incorrere in esposti o ricorsi, l’insegnante deve dare almeno “6” a prescindere. La lezione, anche se “moderna, costruttiva, basata sulla conoscenza e poi sull’acquisizione di competenze” non interessa, se non ad uno, max tre studenti per classe. Se poi hanno certificazioni (bes), la promozione spesso si pretende sia automatica. La stragrande maggioranza degli studenti, non solo sardi,…non conoscono, non sanno, non pensano né ragionano se non per luoghi comuni o pregiudizi. Non partecipano, pretendono l’uso improprio del cellulare in classe….ognuno trincerato nella propria solitudine e vuotezza. Per tenerli mansueti, li si lascia fare. Diversi dirigenti scolastici e docenti, completamente assorbiti dal ” progettificio aziendale” si conformano ad un buonismo di facciata. E tutti sono contenti. Purtroppo, i fatti di cronaca riguardanti la scuola, testimoniano che si sta andando verso una deriva….È necessario che ognuno stia al posto che gli compete: dirigenti, docenti, studenti e genitori!
Io continuo a svolgere il ruolo che mi compete, ma vengo contestata e non solo da diversi studenti e genitori!
Mi accingo verso la pensione, ma continuo a fare il mio DOVERE ovvero insegnare Letteratura e Storia, formare la coscienza civile, guidare al rispetto della legalita’; soprattutto attraverso l’esempio.
Mi confortano i pochi studenti e tra questi diversi ex, che ancora mi consultano. Anch’io ho avuto e ho qualche “Percival”
Ottima illustrazione di una realtà, quella degli adolescenti odierni, che lascia di stucco e spesso basiti. Anche io, che mi cimento quotidianamente con gli alunni di un istituto professionale, mi rendo conto della scarsa volontà di crescere, migliorare, apprendere, fagocitare il mondo non solo con nozioni ma con esperienze. Niente. Peraltro cerco di stimolarli facendo notare che provengono da famiglie scarsamente scolarizzate e non certo ricche e con poche opportunità e pertanto dovrebbero essere ancora più famelici di conoscenza, di crescere di sfondare e migliorarsi. Dico loro che dovrebbero correre il quadruplo del figlio di un medico di città. Nulla. Si trascinano con il loro bel cellulare e i loro abiti rigorosamente griffati. E il mondo finisce li. Un isola senza speranze e prospettive
Uno su mille ce la fa, ma com’è dura la salita…
Eppure ogni tanto a sorpresa, salta fuori qualcuno che ti dice:
“Friedrich è il mio preferito”.
E tu ti illumini