Signore e signori, per chi ancora non avesse capito che se c’è un luogo a irrazionalità variabile e a razionalità intermittente questa è la magistratura italiana, oggi è una grande giornata per rimediare alla lacuna epistemologica.
Oggi la magistratura cagliaritana inquirente ha depositato il fine indagini sul celeberrimo pranzo di Sardara, un pranzo che occupò le prime pagine dei giornali a portò ad alcune dimissioni e alcune clamorose decapitazioni amministrative, dichiarate poi illegittime dal giudice del lavoro.
Adesso, a chiusura indagini, si formulano accuse verso sei persone, tre delle quali militari della Brigata Sassari. Metà del clamore, dunque, e tutto il presunto discredito va a finire su tre poveri cristi che, con certezza, a Sardara sono andati perché invitati, forse gli unici di cui si può esser certi che siano stati invitati, visti gli altri che erano tutti, chi più chi meno, legati da relazioni politiche o sociali. La verità è che un’inchiesta così clamorosa doveva pur infiocinare qualcuno e i tre militari erano i più vulnerabili. Ma questa è giustizia? No, è spettacolo.
E allora, sul filo dell’arte, proviamo a immaginare come Leonardo Sciascia, il più razionalista e complottista degli scrittori italiani del Novecento, avrebbe raccontato questa storiaccia.
Prima di tutto, Sciascia avrebbe descritto non il luogo del crimine, ma gli attimi precedenti il blitz della Guardia di Finanza. Sarebbe andato a verificare il profilo psicologico di chi lo ha guidato. Avrebbe guardato i tabulati telefonici di chi lo ha ordinato, avrebbe scandagliato le celle telefoniche della zona per verificare chi transitava in quelle ore in quelle lande piatte, avrebbe, insomma, illuminato a giorno il tempo, il luogo e il contesto.
Già in questa prima fase narrativa, di mera introduzione e costruzione del clima, dello stile e delle attese del lettore, Sciascia avrebbe magari fatto notare che in quelle ore una macchina originariamente in direzione Nord, improvvisamente invertì il cammino e tornò indietro. All’interno, chi vi viaggiava? Mistero.
Nel secondo e terzo capitolo, Sciascia si sarebbe trasferito al Palazzo di Giustizia, avrebbe vagato tra i suoi corridoi larghi, miseri e severi, avrebbe odorato l’aria e magari si sarebbe imbattuto in un oscuro impiegato d’archivio che gli avrebbe raccontato come in quei giorni il Palazzo riviveva il solito rito dell’addio che aveva vissuto tante volte, quando un alto magistrato si avviava alla pensione, magari senza grandi allori, senza arresti eccellenti, senza fuochi di artificio, ma come tanti anonimi e leali impiegati dello Stato. Magari Sciascia sarebbe riuscito, però, a rivelare il demone segreto che aveva catturato la mente dell’alto magistrato e che lo aveva indotto a cercare spasmodicamente qualcosa di significativo che accompagnasse con plauso popolare il suo ritiro pensionistico, senza trovarlo fino a quel felice mezzodì.
Pausa.
Il quarto capitolo è in interni. Ufficio di un altro magistrato subordinato al primo. Dialogo. Il mondo di mezzo della politica stava facendo uno dei suoi classici raduni gastroenterici mentre il resto della Sardegna stava chiuso in casa. Popolo contro Palazzo, successo assicurato. Non importa cosa avrebbe retto in giudizio, l’importante era l’inchiesta, l’ipotesi dell’accusa, i testimoni, lo sputtanamento sociale, l’alloro della purezza ancora esibito sui portoni del palazzo. Si parte.
Il resto del romanzo sarebbe scivolato via come l’acqua, senza intoppi, fino all’imputazione dei topini di campagna e dei cardellini, gli unici a dover e poter rimanere imbrigliati nella rete da show temporaneo messa in atto.
È ovviamente una ipotesi di fantasia, ma allegoricamente penso che dia l’idea del senso dei fatti piuttosto che della loro realtà.
Ma nell’ultimo capitolo, Sciascia, avrebbe raccontato un pranzo, riservato a tre soli commensali, due di una certa mole e uno minuto e silente, i quali, tra un’ostrica e l’altra, avrebbero commentato “in suspu” come sia accaduto che qualcuno abbia telefonato alla Finanza e qualcun altro, uno dei due “molenti” (nel senso della ‘mole’), abbia avvertito l’altro che sarebbe stato meglio tornare indietro. Una manovra a tenaglia su uno dei ‘molenti’ che Sciascia avrebbe svelato essere una forma della corrispondenza di amorosi sensi tra i tre, in modo da colpire senza far male, da salvare avanzando credito, da ottenere senza chiedere.
La scena finale vedrebbe l’alto magistrato passeggiare sulla spiaggia con la faccia giuliva e illuminata dalla soddisfazione di chi non ha capito niente, ma è convinto di aver capito tutto.
Medardo, domanda legittima, ma facciamoci anche la consegunete domanda: chi andrebbe con segretario e accompagnatore a un incontro privato? Evidentemente l’invito aveva caratteristiche di ufficilità……
” … a Sardara sono andati perché invitati, forse gli unici di cui si può esser certi che siano stati invitati, ..”
Ma era proprio indispensabile andarci con le macchine di servizio?
Ma, abbadiau e bistu in sa lunghe de su sole, custu fàere (rebbotas, pichetadas e bae e crica ite àteru totu) ite iat a èssere: unu navigare nel torbido po pescare nel torbido?
Ite est? Su ‘mundhu’ del torbido po fàere prus lughe de su sole (miracolo! miracolo!) o po fàere iscuriu che in s’iferru che in totu is fognas altrimenti dette in sardu bassas pudéscias chi giai de séculos faent furriare s’istògomo a s’ala mala?