Nel 2014, Paolo Clivati, imprenditore dell’energia e della chimica con aziende a Ottana, veniva indagato, a titoli cubitali, per inquinamento del fiume Tirso. La cosa in sé andava a sommarsi all’altra del 2013 che lo vedeva imputato per inquinamento dell’aria di Ottana per la celebre nube nera che si depose sul manto delle pecore di alcune greggi del circondario.
Ottana è stata inquinata dall’Eni, non da Clivati, ma la memoria è corta ed è stato più semplice aggredire l’ultimo che non la prima, ancora circondato del mito della Rinascita.
Partiamo da qui, dalla saldatura tra cronache e indagini finalizzate a dipingere Clivati come un inquinatore seriale.
Certo è che se Clivati avesse fatto come ha fatto oggi De Pascale, comprando una quota della proprietà della Nuova Sardegna, il tritacarne giornalistico non lo avrebbe colpito, come invece è accaduto.
Chi pensa che gli articoli di stampa non concorrano ai processi si sbaglia di grosso.
Il clima che la stampa crea intorno ad alcuni indagati/imputati, crea e rafforza l’idea comune e diffusa della colpevolezza, che condiziona le procure e i giudici (che non vivono su Marte) e concorre a formare quel pregiudizio etico che spesso è il movente delle indagini e delle sentenze.
In quegli anni, complici tanti e tante invidie, Clivati divenne l’inquinatore, il produttore privilegiato di energia, il giovane imprenditore iracondo e chi più ne ha più ne metta.
Cosa fare in questi casi?
Qual è la strategia migliore per isolare il processo dal linciaggio, dal pregiudizio, dal clima sociale che è stato alimentato per costruire l’inevitabile colpevolezza?
La risposta è: allontanarsi, togliersi dalle cronache sarde, dal livellamento quotidiano dell’odio, anche perché quando una procura comincia a formulare molti capi di imputazione, l’ipotesi più probabile è che voglia arrivare all’arresto, il massimo godimento per un P.M., un arresto eccellente.
E così ha fatto Clivati, per sette anni ha fatto il manager in giro per il mondo, mentre i suoi processi andavano avanti.
Dalla nube tossica è stato assolto nel 2017: nessun inquinamento né dell’aria, né dell’acqua, né degli animali. Solo una mancata autorizzazione a utilizzare un determinato combustibile piuttosto che un altro.
Una settimana fa è stato assolto dall’accusa, formulata nel 2014, di aver inquinato il fiume Tirso. Ed è questo processo che vorrei raccontare, perché è agghiacciante ciò che è accaduto. Mettetevi comodi.
Dodici carpe e una cassa di urea Il primo dato significativo del clima di discredito morale come fattore di costruzione della prova sta nell’evento da cui mossero le indagini: la morte di dodici carpe nel Tirso. La stampa parlò di moria. Ma il bello è che dalle carte del processo emerge che il de cuius ittico non era concentrato, ma distribuito: sette erano state rinvenute cento metri a monte dello scarico del Depuratore di Ottana, e cinque scoperte 6 km più a valle. Questo fatto anomalo (l’acqua va sempre verso il mare e una moria a monte non può giustificarsi con una causa a valle) non fu tale da far dubitare, ma fu sufficiente per far partire l’indagine.
La moria distopica di pesci venne immediatamente connessa a una fuoriuscita di urea avvenuta una settimana prima da un silos della società di Clivati. Ma il caso volle che sotto il silos ci fossero le vasche di contenimento predisposte proprio per questi casi, le quali servono proprio per canalizzare eventuali perdite o eccedenze verso il depuratore. La polizia giudiziaria, non trovando tracce di urea nelle vasche d’uscita del depuratore, ipotizzò l’esistenza di una condotta occulta che avrebbe scaricato direttamente nel fiume Tirso. Fatti tutti gli accertamenti, non si trova alcuna traccia di condotte occulte, e dunque che si fa? Si ipotizza una fuoriuscita massiccia di urea, tale da debordare dalle vasche e finire nella rete delle acque meteoriche e da qui al fiume.
Questa ipotesi viene costruita come prova (perché le prove, come spesso i testimoni, si costruiscono a tavolino) porta al rinvio a giudizio, ma durante il processo viene smontata in toto e per parti al punto che gli stessi Consulenti della Procura (oltre che il P.M. d’udienza, diverso da quello che aveva condotto l’indagine) sono stati costretti a riconoscere che i presupposti dell’incriminazione erano frutto dei seguenti macroscopici errori: a) il volume di sostanza ureica che il silos avrebbe potuto contenere era poco più della metà di quella computata in fase di indagini (39 mc, un’enormità) e pertanto del tutto contenibile (e contenuta) nella vasca di accumulo; b) gli “schizzi” di soluzione ureica ipoteticamente fuoriusciti dalla vasca non avrebbero mai potuto superare i 350/700 litri, appena sufficienti a bagnare il terreno circostante. Intanto, però, il linciaggio era avvenuto, l’imputazione formulata, il rinvio a giudizio distrattamente disposto, la fama di inquinatore consolidata, l’esilio realizzato.
La chimica è una scienza esatta, ma non per le procure La prova decisiva che porta Clivati sul banco degli imputati è però la percentuale di sostanza tossica rilevata nei campioni delle acque del Tirso dai tecnici dell’ARPAS, l’Agenzia Regionale per l’Ambiente. In realtà dovrei dire, ma lo si è capito durante il processo, non la quantità rilevata dai tecnci nelle analisi, ma quella riportata dal direttore del servizio nella sua relazione.
La giornata chiave è il 4 febbraio 2021.
Il Giudice, su richiesta dell’avvocato Mereu, difensore di Clivati, accolta dal P.M., ha disposto un confronto tra la Direttrice del Servizio dell’Arpas, ormai in pensione, e il perito della difesa, il professo Marco Saroglia dell’Università dell’Insubria, a Varese.
Cosa fa notare il professore? Mostra che le analisi chimiche delle acque del Tirso risultavano falsate per erronea lettura dei rapporti di prova, essendo stati posti i valori del composto NH4 + (ammoniaca ionizzata, non tossica), sotto il titolo del composto NH3 (ammoniaca tossica). Una cosa grave che il Direttore del Servizio pone sotto la ragione della massima cautela, cioè dell’ipotesi del massimo danno teoricamente possibile. Ma le molecole sono le molecole in chimica, fa notare il professore, e non si può in nome della massima cautela, rendere tossico in simulazione massima ciò che non lo è, per cui tutto l’azoto presente nel campione prelevato è stato consapevolmente considerato come azoto tossico, nonostante fosse possibile distinguere la percentuale di quello tossico (NH3) da quello non tossico (NH4). In questo modo, il tossico, rilevabile in una percentuale di 1,38 è stato invece rilevato col valore del non tossico, 8,03.
Una scelta, non un errore.
La convinzione personale contro la scienza e, guarda a caso, la propria convinzione a supporto perfetto della tesi dell’accusa. Il sistema giudiziario italiano consente di evidenziare queste mostruosità solo durante il processo, mentre quando il tritacarne è in azione nessuno colpisce e persegue chi elabora cose di questo genere. Ma non è finita, il seguito è più grave.
La pulce d’acqua non è morta. Non vale! L’Arpas procede a fare quattro prelievi: due nel fiume (uno 6000 metri a valle del depuratore e uno 100 metri a monte); uno sulle acque meteoriche all’interno dello stabilimento e uno sulle acque chimiche sanitarie (i reflui di Ottana), prima dell’ingresso nel depuratore. Si è immessa in ciascuno dei campioni la pulce d’acqua, animaletto sensibile alla sostanza tossica (NH3) ipotizzata. La pulce vive e vegeta nei campioni di fiume e in quello delle acque meteoriche, muore invece in quello delle fogne di Ottana. Il dato era tale da far dubitare di tutta la costruzione dell’indagine. Ma ecco che si va a cercare letteratura che attesti che la pulce d’acqua sopravvive anche in ambienti inquinati. Ma quanto inquinati? Dovevano esserlo in una misura pari a quella erroneamente computata nelle tabelle di cui abbiamo già parlato. Viene identificata una pubblicazione che viene citata, asserendo che la tossicità si avrebbe con una presenza di 92,4 milligrammi per litro.
I conti tornano (la pulce non è morta, ma l’acqua era ugualmente inquinata) con i parametri sbagliati.
Il professore, però, mostra al Tribunale che l’opera citata non parla di 92,4 milligrammi per litro, ma di 2,94. Se la pulce non è morta, l’acqua non era inquinata. Non è una sconfessione, ma un’umiliazione, non delle persone coinvolte, della verità.
Una domanda Fino a quando tollereremo queste enormità, questa giustizia che costruisce prove e testimonianze a tavolino, che prima individua il nemico e poi costruisce il processo? Fino a quando sarà possibile che la selva dei collaboratori delle procure che mai pagano per nulla di ciò che fanno, continuino a esercitare le loro funzioni come un tempo facevano i familiari dell’Inquisizione? Come facciamo a tollerare queste tribù di agenti, tecnici, collaboratori, sempre pronti a sostenere una tesi che quando si rivela falsa per loro non comporta alcun costo? Chiediamocelo e troviamo il coraggio di reagire.
Prof. prima una correzione…anche l’acqua scorre in salita . Basta ricordare la fola di fedro nel ‘lupus et agnus’.
Risale ai primi anni 2000. In località , Sili’,frazione di oristano, furono finanziati e realizzati cinque pozzi, trivellati ad oltre 130 mt. di profondita, sul sub alveo del Tirso. Avrebbero dovuto approvvigionare il capoluogo lagunare di acqua potabile.
Le analisi di legge, prima dell’immissione in rete, sentenziarono che quei pozzi erano inquinati di varie sostanze chimiche, ma soprattutto era presente una concentrazione altissima di arsenico, perciò cancerogeno per l’uomo, se assunto con i cibi e le bevande.
Concludo ipotizzando che il fiume Tirso, fin dagli anni ’60 era già inquinato non solo nell’acqua in superficie.
A Paolo Manichedda l’invito a precisare che una Procura finalmente pensante e’stata in grado di capire in quale guaio azioni precedenti dello stesso Ufficio, sostenuto od imboccato da consulenti la cui mancanza di scrupoli sembra pari alla mancanza di scienza, aveva cacciato l’istituzione, oltre che gli imputati. E di come finalmente un Giudice attento abbia saputo dare il giusto peso alle fake ed ai dati scientificamente dimostrati. A Roberto vorrei richiamare che non e’vero che la causa di morte delle carpe sia rimasta ignota. Bensì la ricostruzione degli eventi chimici e tossicologici effettuata mediante calcoli sui parametri dell’acqua titolati correttamente dai tecnici, quindi il confronto incrociato con osservazioni di repertorio su dati da satellite, hanno dimostrato come l’incontrollata eutrofizzazione del Tirso abbia causato condizioni letali per il pesce
In sardo esiste un detto – categoria ‘frastimmos’ (cioè maledizioni) – che recita “Ancu ti currat sa justitzia” o “Sa justitzia ti curzet”. Ecco ciò che mi è venuto in mente quando ho letto della vicenda giudiziaria del sig. Clivati. E mentre mi indigno, vengo colpita da un senso di rassegnazione, come se non si potesse davvero far nulla per realizzare giustizia vera e profonda nelle nostre aule di Tribunale…. Nella saggezza popolare ‘sa justitzia’ di giusto ha solo il nome, in realtà è solo una pratica persecutoria avverso cui non si può davvero nulla…
Ma se i periti nominati dall’accusa non avallano le tesi dell’accusa, hanno chiuso con le perizie.
Ma siccome anche i periti tengono famiglia, … legano
l’asino dove dice il padrone. Purtroppo.
Questa storia dell’urea ricorda la barzelletta dell’orunese beccato dai vigili urbani a pisciare per strada. Alla contestazione da parte del pubblico ufficiale dell’evidente violazione del codice e del decoro, l’orunese non replica ma chiede a quanto ammonta la sanzione. “Cinquemila lire” gli risponde il vigile. E l’orunese: “Toh dechemizza, piscia tue puru!”.
Egregio Roberto, non io, ma i processi hanno attestato che Clivati non è colpevole di inquinamento. Oppure Lei lo vuole dichiarare colpevole a prescindere?
Succede che la Procura della Repubblica apre un fascicolo a carico di cittadini per un fumaiolo che invade lo spazio aereo del vicino e non dovrebbe discutersi (recte indagare) sulla dispersione di olio combustibile su un’area di decine di ettari?
Va bene tutto, ma non si faccia negazionismo!
Diversamente, vogliamo credere che si trattava di fuliggine dovuta alla pratica di bruciamento di stoppie? Questa fu la primissima tesi difensiva affidata ai cronisti. (la memoria non è proprio corta).
Accusare ENI di inquinamento è una grande verità ed anche la soluzione più comoda.
Nessuno (credo) vuole la crocefissione di Paolo Clivati, a maggior ragione per l’impegno economico che è anche sociale da queste parti. Tuttavia, se è giusto dare risalto alla NON colpevolezza dell’imprenditore, trovo scorretto in eguale misura quantificare in una dozzina le centinaia di carpe morte per cause ancora sconosciute. Mi pare sia usata la stessa tecnica giornalistica, con la differenza che in questo caso si vuole sminuire un fatto di grave spregio alla salubrità dell’ambiente.
Per un contributo, sarebbe sufficiente recuperare il servizio di Graziano Canu per Videolina.
Sos magistrados puru, sa giustitziedha!…, tenent unu “problema”: fàghere ischire chi sunt bios, chi bi sunt, chi faghent cosa, chi no los pagant debbadas, e mancari chi cherent fintzas tènnere… “successo”, cun númene e sambenadu.
Sos giornalistas puru tenent unu “problema”: prenare su giornale: fàghere ischire chi sunt bios, chi bi sunt, chi faghent cosa, chi no los pagant debbadas, e mancari chi cherent fintzas tènnere… “successo”, cun númene e sambenadu.
Su male est candho e chie lu faghet “a tutti i costi”, “senza badare al costo”. E s’iscuru a chie costat!
In pagas peràulas, in custa ‘civiltà’ de gherra, a gherra e a gherras, a VINCERE E VINCEREMO, e mancari lis bastat solu «mille morti» zoghendhe a homo homini lupus, sunt própriu “attivi”, ativistas, afariados, e carchi tana inue si cuare no mancat mai e a pagare e a mòrrere bi at sempre tempus, s’iscuru a chie pagat e morit innantis de su tempus, si no cambiamus mentalidade, cumportamentos e vida chentza bínchere e ne pèrdere e no ca abbarramus chentza fàghere nudha!
spero che esista un meccanismo per cui questi procedimenti barzelletta che costano una marea di soldi alla collettività e soprattutto rovinano il sonno, la vita e la salute delle vittime vengano segnalati all’organo di autogoverno della magistratura… ma mi sa che così non è…
corbu cun corbu no si c’ogan s’ogiu
E’ drammatico pensare che qualcuno, per superficialità o impreparazione, o più spesso per malafede, possa giocare al boia sulla pelle degli altri, eppure davanti a errori mastodontici, rimanere così sfacciatamente impunito.
Non si deve tollerare. Ma non è possibile uscire da questa situazione se non con un mutamento di tutti. Si può imputare ai giornalisti solo il creare ombre su alcuni? Certo che no. Lo fanno nella vita di ogni giorno tanti che poi finiscono per credere alle loro stesse menzogne. Un passo di Papa Francesco parlava del chiacchiericcio…