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I prigionieri catalani: la ferocia e la viltà dell’Europa

Posted on 13 Febbraio 202114 Febbraio 2021 By Alberto Valenti 1 commento su I prigionieri catalani: la ferocia e la viltà dell’Europa

Jordi Cuixart: una voce non violenta di speranza oltre la crisi delle democrazie del nostro tempo

Ho tornarem a fer! Lo rifaremo!

È diventato il motto di un movimento che si riconosce nelle parole di Jordi Cuixart, Presidente dell’associazione Omnium cultural, imprenditore catalano, condannato a nove anni di carcere per ribellione[1]. Jordi Cuixart pronunciò queste parole davanti al Tribunale Supremo in un discorso conclusivo prima della sentenza definitiva. Una replica, concessa a tutti gli imputati, in cui Cuixart non chiese né una riduzione di pena né il diritto a un’ulteriore difesa dopo mesi di processo[2], piuttosto descriveva la condizione di disumanizzazione della società spagnola e occidentale di fronte alle ingiustizie di un sistema statale discriminatorio, nonché il diritto a difendere l’autodeterminazione[3] in Catalunya. Una denuncia della violazione dei diritti fondamentali delle persone.

Cuixart, nel suo intervento, sosteneva che le proteste in piazza e nelle strade fossero l’esercizio pacifico di rivendicazione del diritto di Catalunya di essere un paese che possa decidere il proprio futuro. Egli ne esplicita il significato dichiarando che i diritti fondamentali, conosciuti nel corso della storia dell’umanità e divenuti patrimonio di tutti, sono le vere conquiste delle democrazie moderne. Conquiste della società intera che venivano rivendicate quando le persone furono arrestate o malmenate nei seggi allestiti nelle scuole e nei centri civici.

Per tal motivo, secondo Cuixart, dal processo e dalla relativa sentenza sarebbe dipesa la qualità della democrazia dello Stato spagnolo. Questo perché la sentenza avrà effetto, come precedente giuridico e storico, in qualsiasi angolo di Spagna e quello che è successo ed è stato punito a Barcellona dovrà essere punito anche a Madrid, Murcia, Sevilla, Vigo, Salamanca.  

Jordi Cuixart affermò che questo processo avrebbe voluto obbligare le persone a smettere di protestare. «Non si può mai smettere di protestare. Non si deve smettere di protestare».

Disse, «io rispondo a un interesse superiore, che è molto personale ed è la voce della mia  coscienza. Non ho nessun pentimento perché quello che ho fatto, ritengo che doveva essere fatto. Io accetto in tutto le conseguenze di ciò che ho fatto. Esercitare la disobbedienza civile (che non può essere mai violenta) è rinnovare  il vincolo con la società. Questo non può essere oggetto di un giudizio penale»[4]. Difatti, il problema non può essere la disobbedienza civile. Continua affermando che il problema nella società di oggi è la obbedienza civile che «permette che gli oceani siano mari di plastica, permette che i rifugiati muoiano vicino alle nostre coste e si persegue la gente che vorrebbe salvare questi immigrati. O la stessa obbedienza civile rappresentata da centinaia di migliaia di persone che votano un Governo che autorizza un aiuto di 60 mila milioni di euro e che queste ultime producano 600 mila sfratti». Il problema, secondo Cuixart, è che i cittadini continuino a non protestare che in Catalunya, una delle più prospere regioni d’Europea, 1 persona su 4 sia in una condizione di rischio di esclusione sociale. E il problema – afferma Jordi Cuixart – è la disobbedienza civile o non protestare di fronte a questo tipo di diseguaglianze.

Oltre a ciò, Cuixart ha inteso riconoscere il valore dell’esercizio democratico di circa 2 milioni e 800 mila votanti del referendum del primo di ottobre (che abbiano votato SI o che abbiano votato NO) che si sono mobilitati per andare a votare sapendo che sarebbero stati caricati e colpiti dalla Polizia. Cittadini innocenti, che in maniera pacifica hanno deciso di rinnovare il loro compromesso con la società per migliorare la democrazia.    

Cuixart individuò un problema di fondo: egli sostenne che non si fosse analizzato un fatto incontestabile che è l’ «ossessione di ricercare un nemico». Forse tutto ciò deriva dalla cultura o, forse, dall’educazione ricevuta o ancora è una questione antropologica (sottolineando che non è uno specialista della materia). Durante il processo emerse che alcuni, soprattutto tra i testimoni, non si fossero sentiti a proprio agio nel dichiarare alcune cose. Ciò dipenderebbe dal fatto che non ci sia più il desiderio di ascoltare le persone, soprattutto coloro che la pensano in maniera differente. Cuixart sottolineò che fosse necessario innanzitutto risolvere questo problema di mancato dialogo, perché, come disse più volte, egli stesso non possiede la verità assoluta e pertanto bisogna fare tutti uno sforzo per capire le ragioni degli altri. «Io non ho nessun tipo di nemico, io mi rifiuto di vivere senza speranza. Io continuerò a vivere e agire evitando di cadere nella trappola di confrontarsi con nemici. Mi rifiuto di disumanizzarmi e di smettere di desiderare di vivere felice. C’è un tentativo di dare un’immagine sbagliata del movimento indipendentista catalano». Un tentativo di colpevolizzare l’idea del diritto all’autodeterminazione, che è una posizione legittima e che merita tutto il rispetto come lo meritano anche altre posizioni. Difatti, quando ci si divide a livello ideologico e chi crede di aver la ragione non è disposto a sentire le ragioni degli altri, allora la divisione si sposta sul piano politico. Recentemente, in un altro suo intervento[5], alla luce di tutto ciò che ha vissuto, Cuixart ha affermato che non prova odio o rancore verso nessuno. Non è nella sua natura odiare.

In seguito alle accuse di voler prendere le distanze dal resto di Spagna, e di volersi contrapporre ai suoi «fratelli spagnoli» egli affermó: «non ce la faranno mai! Conosciamo le nostre radici, il 70% della popolazione di Catalunya proviene da altri paesi della Spagna e del resto del Mondo. Mai riusciranno a dividerci perché consideriamo i paesi del resto di Spagna come paesi fratelli, così come quelli del resto d’Europa. In Catalunya nessuno pensa alle proprie origini, alle proprie radici bensì guarda a quale tipo di futuro vorrebbe per la società catalana».

Il discorso del Capo dello Stato per moltissimi democratici spagnoli è stato un discorso avvilente. Il Re Felipe VI non ha  colto l’opportunità di svolgere il suo ruolo di conciliatore, e di incoraggiare all’unità nella diversità. Soprattutto, non ha denunciato la brutalità dell’azione della polizia contro i cittadini della Nazione che intende rappresentare. «Mi dispiace di non aver sentito il Re Felipe pronunciare parole di unità e di condanna delle violenze da parte della Polizia. Le immagini sono impattanti, sono immagini che rimarranno impresse nella memoria di moltissime persone e principalmente nella memoria dei catalani». La stessa Procura ha dovuto affermare che ci sono stati più di 1000 feriti nel giorno del referendum e durante gli sgomberi delle stazioni e dell’aeroporto di Barcellona.

«Mi rifiuto di vivere senza speranza, mi rifiuto di disumanizzare me stesso, mi rifiuto di odiare chicchessia. Il nostro paese non rimarrà frustrato dopo la sentenza. È un paese di immigrazione, si parlano più di 300 lingue senza aver dovuto rinunciare al catalano come elemento culturale di coesione sociale. Un paese dove i propri cittadini, comunque, hanno scelto il catalano come lingua veicolare nella scuola».

Non è stata una sentenza a far perdere la speranza di conquistare il diritto all’autodeterminazione. La cella per Cuixart – da più di mille giorni in carcere – si è convertita in un luogo di riflessione, scrittura e in un certo qual senso in un luogo di libertà. Questa è la testimonianza della trasformazione della tristezza e della rassegnazione di un prigioniero in un leader della lotta non violenta per l’autodeterminazione e i diritti umani, un megafono, un amplificatore, un altavoz  (ha dichiarato più volte).

Ho tornarem a fer! Ho farem per l’amor a la vida i a la llibertat.


[1] I fatti contestati e per cui da più di tre anni è recluso risalgono al 20 di settembre 2017, qualche giorno prima della celebrazione del referendum dell’1 di ottobre

[2] «La mia priorità non è uscire di prigione, le mie priorità dopo questa sentenza non cambieranno. Da questa sentenza tutti trarremo una lezione: in pieno ventunesimo secolo, con tutta la umiltà del mondo, i cittadini hanno lottato per far si che la società in cui vivono sia migliore e possa decidere il proprio futuro. Un paese più libero che è l’aspirazione di moltissimi esseri umani. Io continuerò a lottare per i miei figli, i più grandi, il piccolo e per quello che arriverà in autunno».

[3] La Carta delle Nazioni Unite, infatti, al Capitolo I (dedicato ai fini e principi dell’Organizzazione), articolo 1, paragrafo 2, individua come fine delle Nazioni Unite:”Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-determinazione dei popoli…”

[4] https://www.youtube.com/watch?v=SQ2tepEzblQ.

[5] https://www.lavanguardia.com/politica/20200711/482241355585/jordi-cuixart-1000-dias-prision-lledoners-proces.html

Catalogna, Politica

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Comment (1) on “I prigionieri catalani: la ferocia e la viltà dell’Europa”

  1. Mario ha detto:
    13 Febbraio 2021 alle 08:32

    Jordi Cuixart: in custu cristianu b’at ómine! In cust’ómine b’at cristianu!
    Custu est un’ómine: líbberu e responsàbbile a costu de finire in galera, e líbberu fintzas in galera!
    B’at zente ‘líbbera’ chi zughet fintzas s’ànima in galera.

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