Il virus, invasivo e letale, è una disgrazia vera. Ma non è l’unica. La Sardegna, colpita di striscio dalla pandemia, soffre certamente per i malati e soprattutto per i suoi morti. Soffre, però, anche dei suoi mali antichi.
L’Italia (dati DEF, quelli UE sono peggiori) è più che mai compromessa da un debito pubblico proiettato al 155,7% del PIL, da quello netto delle PP.AA. oltre il 10%, e dalla contrazione del prodotto interno lordo di oltre 9 punti.
Le casse sarde sono destinate al tracollo, anche perché il recente accordo Stato/Regione cancella gli effetti positivi delle sentenze della Corte Costituzionale su entrate e accantonamenti, e concede allo Stato una ulteriore manovra del 20% sui contributi regionali alla finanza pubblica.
Uno studio CNA segnala in Sardegna una recessione più acuta del resto d’Italia. Il lock-down ha un effetto previsto di almeno 3 miliardi nell’Isola – a fronte di un “blocco delle attività economiche limitato a marzo e aprile (4.4 se il lock-down durasse fino a giugno) il Pil regionale potrebbe crollare del -9,6% nel primo caso o addirittura del -15% nello scenario peggiore”.
La nostra – continua CNA – risulta “tra le economie più vulnerabili in ragione dell’alta incidenza del settore turistico, l’elevata quota dei lavoratori precari, una maggiore esposizione al rischio liquidità per le imprese, un settore delle costruzioni più vulnerabile, l’altissima quota di export del settore petrolifero”.
L’ASPAL ha effettuato uno studio sull’impatto dell’epidemia relativamente alle assunzioni settimanali nel periodo 24 febbraio/9 aprile, rapportandolo agli stessi mesi del 2019. Il crollo in percentuale è superiore al 55%, e in termini assoluti di 22.150 unità.
I dati peggiori per alberghi e ristoranti, a seguire istruzione (blocco supplenze), noleggio e servizi alle imprese. In contro tendenza i servizi domestici (emersione dal nero per le norme di lock-down).
Questo andamento, significativo sul fronte assunzioni, si innesta in un mercato del lavoro critico.
Segnali neri con l’occupazione in lieve calo (salvata dal blocco dei licenziamenti e dagli ammortizzatori sociali) e l’impennata dell’inattività, sintomo che nel Paese si è smesso di cercare lavoro.
La Sardegna va peggio anche qui, perché l’incidenza degli occupati nei servizi è quattro volte quella dei settori produttivi (agricoltura/industria/ costruzioni), il tasso di attività sotto la media nazionale e distanziato di circa 8 punti da quello di Lombardia, Piemonte e Veneto sempre oltre il 70%.
Aggiungiamo che la disoccupazione sarda viaggia 5 punti sopra la media nazionale e circa 10 rispetto a quello delle regioni economicamente più forti.
L’appesantimento della crisi del sistema produttivo isolano, la salute precaria delle imprese sarde e il blocco in settori rilevanti come quello del turismo e l’andamento del mercato del lavoro, incideranno notevolmente sul gettito fiscale e sulla disponibilità di bilancio della Regione, quantificabile prudenzialmente e tenendo conto delle entrate correnti di natura tributaria, di circa 700 milioni. Prevedibile una contrazione delle assegnazioni statali, anche ai Comuni, a fronte della necessità di rafforzare la spesa regionale per assistere persone e famiglie e a protezione del sistema delle imprese e del lavoro.
Dire che tutto “andrà bene” non è ottimismo, è retorica dell’esagerazione. La Regione è precipitata in uno stato di torpore comatoso, priva di idee e impacciata nei movimenti, subalterna nella volontà, senza capacità organizzativa e operativa.
La battaglia autonomista appare archiviata, piuttosto che sviluppata verso nuovi contenuti di consapevolezza e autogoverno. Nello Stato serpeggiano incontrastate deviazioni neo-centraliste, in violazione dei principi dell’articolo 5 della Costituzione.
Piuttosto che adagiarsi sugli effetti del “lock-down” per fasi, deciso dalle autorità sanitarie e dalle “task force” governative, servirebbe una reazione radicale, andrebbe progettato il futuro della Sardegna con un nuovo slancio di sardismo democratico, progressista ed ecologista, proponendo l’Isola, con la sua centralità mediterranea, come la terra dell’economia della sostenibilità ambientale e sociale, della ricerca e della sperimentazione dei processi di “rinaturalizzazione” produttiva. La Sardegna si dovrebbe candidare ad essere terra di incontro di culture, di amicizia e pace tra i popoli del Mediterraneo.
Un progetto/modello “di bene”, da pensare e realizzare, da vivere e da regalare.
Tutto ciò ha bisogno di uno straordinario investimento partecipato di intelligenze, energie e risorse, della proiezione federalista delle identità, di configurarsi come un segmento della più generale piattaforma per la “rinascita” europea, che guarda a Sud anche per risanare il Nord. Alcuni dicono che sognare non sia una colpa, io sostengo che sia un dovere.
Sognamo. Bene. Con una meta realistica da raggiungere a breve. Con un piano di ripresa fatto di obiettivi minimi che sommati faranno quelli più ambiziosi. Diamo idee a chi non le ha. Abbiamo tutti necessità di persone che non guardino ai propri interessi ma alla comunità.
Non credo che la Sardegna sarà mai libera ed indipendente. Ma possiamo di certo impostare tutti i rapporti sulla parità. Schiavi di nessuno. Soprattutto iniziamo ad aver fiducia in progetti nostri non copia di altri pensati per realtà diverse. Fuori dal colonialismo culturale.