In questo periodo si fa un gran parlare di teledidattica (o didattica a distanza), nelle sue diverse forme. La teledidattica è una risorsa potente, e democratica: si pensi a paesi sterminati, come l’Australia, e alla possibilità di far avere un’istruzione anche a ragazzi che abitano in zone isolate e dovrebbero percorrere ogni giorno centinaia di chilometri per raggiungere la scuola più vicina. O si pensi a giovani malati che hanno bisogno di cure lunghe, durante le quali possono proseguire gli studi solo grazie alla tecnologia. Si parla dunque di inclusione, di facilitazione, di avvicinamento, ma anche di risparmio in termini di tempo, di denaro e di risorse ambientali.
Vista così, la teledidattica presuppone una pianificazione accurata con relativi investimenti pubblici: gli enti che la erogano devono avere risorse tecnologiche adeguate e personale formato allo scopo, e la rete internet (fibra) deve arrivare anche in centri dove sia antieconomico portarla. Un po’ come l’acqua o la corrente elettrica.
A me pare che oggi, in Italia, parlare con enfasi di teledidattica sia inappropriato: forse occorrerebbe parlare di didattica di emergenza. Grazie a insegnanti ammirevoli (che il più delle volte non sono stati formati allo scopo, fanno tutto da soli senza ricevere neppure un grazie), si sta facendo fronte a una situazione imprevista con risorse che sono totalmente private e il cui possesso non può essere dato per scontato, soprattutto per i soggetti svantaggiati.
A inizio marzo, ad esempio, il sindaco di Genuri denunciava sull’Unione Sarda che nel suo Comune la didattica online deve fare i conti con una rete internet da terzo mondo. O ancora: parlavo con uno studente di una scuola superiore di Sassari che mi diceva che alle lezioni in videoconferenza della sua classe gli studenti che partecipano sono in media meno del 50%.
Mi pare allora che il problema sia chiaro: la teledidattica deve essere inclusiva. In questo momento, invece, è un rimedio adottato in emergenza che, calato sulla realtà del nostro paese e della nostra regione in particolare, non di rado sta escludendo proprio i più deboli. E sia chiaro: non è un discorso sulle scuole e sugli insegnanti, che stanno lavorando e facendo molto più di quanto sarebbe ammissibile chiedere loro. È un discorso su certa retorica insopportabile di chi ha la coscienza sporca.
p.s.: si legge di alcuni insegnanti, certo una minoranza ristretta, che interrogano online i propri studenti con metodi fantasiosamente intrusivi perché dimostrino di non godere di aiuti illeciti. Non è il momento di declinare la meritocrazia in queste forme grottesche. È il momento della vicinanza, della crescita, dell’inclusione: si può osare anche con la didattica, magari con qualche declinazione o complemento in meno e con qualche passo di Lettera a una professoressa in più.
Un’opportunità e un limite. Questo è la teledidattica se non integrata con altre forme. È un bel momento per ripensare a tutto e ricostruire unendo tradizionale e nuovo.
Secondo me, questo bisogna fare in questi momenti di pausa dalla vetrina e dagli ego un po’ ingombranti: progettare un sistema dell’istruzione più giusto ed efficace. Non perdiamo un’opportunità.