In questi giorni decreti legge, decreti ministeriali, deliberazioni di giunta e ordinanze regionali si susseguono, portando con loro stanziamenti finanziari plurimiliardari. Accordi e protocolli d’intesa coinvolgono le parti sociali nell’individuazione delle platee dei beneficiari dei sussidi, dei contributi e dei risarcimenti. Difficile capire come un’azione complessa, stracolma di procedure e nuovi adempimenti, possa essere garantita, in tempi utili, da una Pubblica Amministrazione indebolita.
Per noi, in Sardegna, vale la preoccupazione di una Regione affidata a strutture dirette da persone scelte su base “fiduciaria” dalla Giunta, e non in relazione ai curricula delle esperienze e delle competenze, maturate e certificate, lo stato precario degli uffici.
Non si dica poi che tutti siamo uguali davanti alle responsabilità. Il Presidente del Consiglio dei ministri presentandosi alle Camere, ha assunto un atteggiamento difensivo.
Chi ha rappresentato questo fenomeno come un problema di breve durata e gestibile esclusivamente con il distanziamento sociale, è stato ottimista. Chi ha esaltato la possibilità d’intervento del sistema sanitario nazionale, in situazioni acute ed emergenziali come questa, è stato avventato e non ha considerato pienamente la dimensione dell’impatto delle urgenze. Non ha valutato neppure l’indebolimento delle strutture ospedaliere, territoriali e regionali, sulla base delle pluriennali politiche nazionali e regionali di contrazione degli investimenti in sanità pubblica, in sicurezza sociale. Difficile illudersi che le donne e gli uomini, medici, infermieri e operatori sanitari, possano nonostante il loro impegno incurante dei rischi gravissimi che corrono, contenere oltre misura gli effetti dell’epidemia.
Appare impossibile credere che le amministrazioni locali e le forze dell’ordine possano farsi carico di una fase prolungata di sostanziale reclusione di massa, che si scontra con una realtà sociale molto articolata, l’esistenza di una economia sommersa e fenomeni di lavoro nero consolidati nel tempo e tollerati dallo Stato. Modalità di sopravvivenza diffuse negli strati deboli della popolazione.
Paghiamo, anche, il prezzo di alcune “campagne devastanti”, da quella della mala sanità (che ci costa circa 12 miliardi l’anno di medicina difensiva) alla generalizzata aggressione verso volontariato e cooperazione sociale, funzionali allo smantellamento di attività pubbliche a favore di profitti privati. Storie di moderna (e antica) ingordigia che hanno messo a rischio il valore sociale del volontariato, anche religioso, impegnato da sempre e con esperienza nella gestione del disagio, delle situazioni più pesanti di povertà e degrado, capace di presenza operativa nei momenti critici, dalle calamità naturali al dolore della malattia e della morte.
Soprattutto non è stato utile esaltare il “modello Italia”. Sbagliatissimo farlo, in queste ore, per il c.d. “modello Sardegna”, nonostante le critiche che sono state avanzate, in modo documentato, dagli operatori sanitari e dalle loro organizzazioni professionali. La sfiducia generale di cui gode l’assessore regionale della sanità.
È abbastanza ardito, infatti, sperare di aver individuato un “modello di intervento” per affrontare un fenomeno pieno di incognite come la pandemia da “corona virus”, non solo nella sua attuale fase di sviluppo ma, soprattutto, nel medio e lungo termine. In attesa che la ricerca medico-scientifica possa individuare soluzioni decisive, va capito come rispondere all’esigenza di salvare e potenziare il sistema economico-produttivo e quello socio-assistenziale per garantire, e non è una esagerazione, la vita, la convivenza civile e la pace. Questione questa che non appartiene ai governi. Appartiene ai popoli.