Circa due anni fa avevo denunciato due sconosciuti che in rete mi avevano rivolto insulti e ingiurie gratuite. Qualche mese fa il mio avvocato mi ha comunicato che la Procura aveva confermato l’esistenza del reato, ma aveva dovuto arrendersi all’impossibilità da parte della Polizia Postale di identificare chi stava dietro alcuni profili Facebook. No comment.
Ieri in Senato si è svolto il voto delle ipocrisie sistemiche. Era il voto contro l’antisemitismo, contro l’odio verso gli ebrei (che è radicatissimo in Italia e forse inestirpabile), si è trasformato nel voto contro l’hate speech, contro il linguaggio odioso e discriminatorio. Il mio piccolo caso dimostra che non basta dimostrare che chi ti odia ha commesso un reato; lo Stato è in grado di perseguire solo reati facilmente accertabili, laddove vi sia un po’ di difficoltà, rinuncia. E si capisce bene perché: costerebbe troppo perseguire tutto il fiume d’odio che si riversa in Facebook.
A questo punto si inserisce il grande dibattito sull’obbligo della identificabilità dei soggetti in Rete. La deputata americana Ocio Cortez, che ha avuto il grande merito di dimostrare che c’è ancora chi non è affascinato dalla ricchezza, ha sbagliato quando ha costretto il Patron di Facebook Zuckenberg ad ammettere candidamente che, in nome della libertà di espressione, lui consente che si pubblichino notizie false, specie in campagna elettorale. Infatti, il problema non è dire bugie (chi crederebbe a chi dicesse che l’asino vola?); il problema è non essere responsabili delle bugie che si dicono. Questo è il punto: sei libero di dire ciò che vuoi, ma te ne devi assumere pienamente la responsabilità, devi essere identificabile, il centro della tua attività non deve essere fuori dalla giurisdizione del Paese in cui la tua opinione incide socialmente (non puoi giocare a fare l’untore in Italia e avere il server in Siberia). Una cosa semplice di questo tipo, e cioè carta d’identità e perseguibilità dietro ogni profilo Facebook, farebbe saltare per aria la macchina da guerra della Lega in Rete, e non solo della Lega. Invece no, il Senato è andato a farfalle. Altro che ‘manette agli evasori’! Bisognerebbe alzare il dazio sull’odio, rendere più stringenti i giudizi per diffamazione e più gravi le sanzioni pecuniarie e patrimoniali (che sono le uniche temute da aziende e persone in Italia).
Ieri, in Senato, anziché parlare di cose molto serie (il razzismo antiebraico radicatissimo in Italia), si è fatto un minestrone halloweniano. A un certo punto si è assimilato l’hate speech ai nazionalismi e agli etnocentrismi esasperati. Qui si apre una voragine. Un sardo che si dica sardo e si senta non italiano, è un nazionalista esasperato? L’Italia retorica delle celebrazioni delle Grandi guerre, persegue o no un ‘nazionalismo esasperato’? Che differenza c’è tra un’identità nazionale e un nazionalismo esasperato? Chi segna il confine?
Tuttavia, non è vero che l’hate speech si riversa solo nella Rete. Sempre ieri, nella mia reclusione volontaria a casa che prelude a una grande azione legale, mi è stata inviata una sentenza recentissima della Cassazione, su un fatto che aveva fatto scalpore in Italia, nella quale è risultato evidente che il primo ad aver usato l’hate speech era stato il PM! Non si vedrà mai lo Stato perseguire se stesso! Eppure, è sempre più diffusa nelle aule giudiziarie la tecnica del Diritto dell’Uomo che Passa, o l’uso del Digesto del Rivale. Funziona così: il PM si fa un’idea, poi non cerca i fatti che la corroborino, cerca un Tizio, meglio se rivale dell’imputato Caio, e gli chiede conferma della sua tesi. Un’affermazione diviene un fatto. Si salta l’onere della prova con un principio di autorità: poiché lo dice Tizio, è vero. Più hate speech di così si muore. Dopo di che in giudizio emergono i fatti, ma per anni il Digesto del Rivale, supportato dalla forza dello Stato, ha devastato la reputazione dell’imputato.
Conclusione: l’Italia è un Paese irrimediabile fondato sulla ferocia incipriata di buonismo.