Ieri, nel Medio Campidano, nel regno incontrastato della cupola rosso-bianca, un uomo forte, guardandomi in faccia, mi ha chiesto: “Va bene. D’accordo, si capisce che volete cambiare tutto, ma come facciamo?”.
Iniziamo a dirlo.
Un primo piccolo gesto rivoluzionario è mangiare solo sardo e mangiare solo sano.
La catena alimentare della Sardegna riflette la struttura della nostra bilancia commerciale, caratterizzata dallo scambio ineguale: noi importiamo tutto, anche quello che potremmo produrre.
Mangiare solo sardo significa fare il piccolo sforzo di informarsi e di verificare le informazioni. Non significa solo fornirsi dal negoziante sopravvissuto vicino a casa (perché niente vieta al negoziante di rifornirsi al mercato all’ingrosso e acquistare la lattuga coltivata chissà dove) che si serve di fornitori noti, vicini e verificabili. Significa sapere e verificare da dove viene la merce. Si può fare per tanti cibi (carne, latticini, farinacei, legumi, ortofrutta ecc.).
Significa saper osservare: più i banconi sono pieni tutti i giorni della stessa merce, più c’è una tecnica di conservazione che va conosciuta. Più l’approvigionamento è quotidiano, più è probabile che la merce non sia stata conservata a lungo.
Poi c’è il problema del prezzo insano.
Il cibo venduto a prezzi molto bassi è un cibo malato. Sarà un caso, ma le immagini delle prime ore del primo dell’anno hanno rappresentato le strade delle città sarde invase da resti di cibo spazzatura (le immancabili patatine fritte, l’immancabile salsiccia fresca piena di grasso, l’immancabile pollo fritto, l’immancabile wurstel, l’immancabile bottiglia di spumante scadente ecc. ecc.). La festa dello stordimento è ormai la festa della friggitrice, il supplizio del fegato.
Mangiare sardo e mangiare sano significa incrementare il ciclo della ricchezza in Sardegna. Mangiare sardo e sano significa redditi e stipendi giusti.
Chi vende al prezzo giusto, paga al prezzo giusto chi lavora per lui. Se il prezzo è fatto da chi possiede lo scaffale, in modo da vendere sotto costo carne, latte, ortofrutta e quant’altro, per poi vendere con ricarichi astronomici invece l’ovetto Kinder, allora il produttore del cibo deprezzato cercherà l’operaio deprezzato e coltiverà nel modo peggiore pur di risparmiare.
Bisogna cambiare mentalità. Bisogna rifiutare in Sardegna il gigantismo economico, la scelta di produrre sempre di più per competere sui mercati dei grandi consumi.
La nostra strada è invece competere sui consumi di qualità.
È la rivolta del cibo. È la rivolta della salute. È la rivolta dell’equo salario.