Ho fatto questa domanda a 20 persone nello scorso fine settimana: «Pensi che le prossime elezioni politiche ti riguardino in qualche modo?»
16 risposte negative, 4 positive. È la plastica dimostrazione della sterilizzazione delle democrazie occidentali: alle elezioni si decide forse chi comanda, ma non che cosa si farà. Le cose da farsi sono appannaggio di sistemi sovranazionali non sottoposti alla verifica del consenso. Ne cito alcuni: telecomunicazioni, finanza, big data, credito, trasporti, grandi scambi commerciali. Su questi temi pesa ancora la decisione politica di alcune potenze (Usa, Russia e Cina sopra ogni altra), ma pesa soprattutto l’obbligo della tenuta del sistema, una sorta di “The show must go on” dell’equilibrio politico mondiale. Berlusconi continua a sostenere di essere stato vittima di un colpo di stato nel 2011, quando lo spread passò da quota 244 a luglio a quota 553 a novembre, facendo impennare il rischio di default della Repubblica italiana. Non fu un colpo di stato, ma fu la reazione di un sistema – che si sentiva minacciato dalla confusione del Governo italiano – visibilissimo ma non sottoposto al consenso che lega finanza, debiti pubblici, banche, stati, sistemi di sicurezza e di difesa, equilibri. Lo stesso sistema che rifiuta l’indipendenza della Catalogna e la inibisce chiudendo 1900 imprese a Barcellona.
Un pensiero politico serio dovrebbe porsi il problema del rapporto tra la libertà umana e questa cappa di controlli diretti e indiretti. Un pensiero politico serio riporterebbe al centro il diritto dell’individuo contro le pretese dei sistemi complessi.
Il pensiero politico italiano è privo di questa profondità.
Il pensiero politico sardo non tratta di questi temi e parla di un mondo surreale che ancora discute come ostacolare la partecipazione delle donne alle istituzioni e alla politica (paradossale ciò che è emerso ieri: poiché una lista di tre candidati con una donna e due uomini può favorire la donna – finalmente! – ci si indigna e si dice: «Nessun favoritismo a chi è stato sfavorito dalla storia e dagli egoismi; parità di condizioni, e che diamine!». E quindi, via agli emendamenti. Che pena).
Ma ciò che più deve preoccuparci è l’abitudine alla subalternità culturale. Faccio un esempio.
I giornali dei giorni scorsi hanno esaltato come grande risultato di civiltà il fatto che in Svezia a breve non si faranno più pagamenti in contanti. Tutti a gioire, tutti a dire che noi invece paghiamo ancora in contanti perché siamo imbroglioni.
Pochi hanno riflettuto sul fatto che se tutto, ma proprio tutto, ogni nostra scelta assume una traccia digitale, tutto, anche la nostra intimità, diventa esplicita a chi gestisce le reti o può accedervi con più potere degli altri.
Ma a questo punto insorgerebbe il solito giustizialista: «Se poni questi problemi, hai qualcosa da nascondere. Non sai che gli scambi in contanti sono tipici del mondo malavitoso? Se non fai niente di male, non devi aver nulla da temere».
Invece io voglio avere più di una cosa da nascondere allo Stato, alle macchine, ai sistemi, ai curiosi e al mondo: la mia più segreta identità, i miei gusti, le mie predilezioni, le mie debolezza, le mie scelte, i miei affetti, i miei luoghi e anche i miei risparmi, dei quali lo Stato, assolto il sacrosanto dovere di pagare le tasse, non ha alcun diritto di interessarsi.
Le carte di credito sono le spie dell’intimità delle persone, ma chi non è più educato alla libertà non lo sa.
Ecco, alle elezioni politiche la Sardegna dovrebbe arrivare parlando di queste cose, di ciò che essenziale per la nostra dignità, che dura lo spazio fugace della vita terrena; la Sardegna dovrebbe arrivare alle elezioni politiche italiane parlando di un altro Stato, di più libertà, di più limiti per gli apparati e di più occasioni per gli individui. Invece, fa gli sgambetti alle donne.