di Paolo Maninchedda
La Corte di Cassazione, con la sentenza 28623, ha assimilato il bullismo al reato di stalking e ha condannato dei ragazzi, oggi maggiorenni, a 10 mesi di reclusione, con sospensione della pena, per avere, negli anni passati, insultato e picchiato ripetutamente un compagno di scuola.
Chiunque abbia figli, sia naturali che acquisiti o legalmente o affettivamente (intendo dire che, per esempio, io ho più figli affettivi dei miei figli naturali perché mi sono affezionato e ho seguito diversi ragazzi o ho fatto e faccio il fratello maggiore a diversi amici) sa che ci sono cinque anni in cui si soffre per l’incontro a scuola tra ragazzi con diverse abitudini educative. Sono gli anni, dai 12 ai 16, nei quali si sperimenta la bellissima varietà dell’originalità umana, ma sono anche gli anni nei quali si possono incontrare i celebri ‘bulli’.
Chi non ci ha mai avuto a che fare spesso sorride e indica facili rimedi, più sbrigativi che pedagogici. Chi invece ha figli pacifici, non orientati alla violenza, magari timidi o goffi, sa che non è tutto così facile come sembra potersi rappresentare a parole; sa che la famiglia passa le pene dell’inferno e, inutile dirlo, attraversa un lungo periodo di fatiche e di preoccupazioni. Prima di tutto deve convincere non solo il corpo docente della scuola, ma anche i consigli di classe che ciò che dice o lamenta è vero; poi spesso deve attivare meccanismi difensivi del proprio figlio/a nel periodo in cui sta denunciando il fenomeno. In molti la fanno più breve: cambiano scuola. Ma questo è il metodo che porta poi i ragazzi a introiettare la paura e a consolidare un meccanismo di frustrazione e di inutile ribellismo inattivo che nell’età adulta depotenzia le qualità della persona.
Questo è o non è un problema educativo?
Direi di sì.
E come si affrontano i problemi educativi?
In Italia seguendo la tradizione che affonda le sue radici nelle procedure dell’inquisizione, secondo lo schema colpa/delitto/pena/ sanzione.
L’Italia non si interroga mai in profondità, non guarda mai in faccia le sue miserie, i suoi fallimenti, la rabbia su cui, soprattutto al Sud, è fondata. Al delitto in Italia (ma non solo) si risponde con la pena non con l’educazione, con la fatica del cambiamento profondo.
Manzoni, il padre della lingua italiana comune, lo aveva capito perfettamente: per ogni delitto una nuova legge più severa della precedente. Risultato: delitti in aumento e leggi in aumento. Poiché il Parlamento italiano fa tutto furoché l’essenziale, ecco che riemerge il ruolo sostitutivo della magistratura, che tenta di risolvere il problema con l’unico strumento che ha: la punizione.
Poi però accade che la stessa Corte di Cassazione, nella sentenza 24103, afferma che in chat privata o in gruppi chiusi di social network non esiste l’istigazione a delinquere. Dove girano il dileggio e gli insulti verso i ragazzi e tra i ragazzi? Esattamente in chat e gruppi chiusi; ecco, qui, secondo la barocca giustizia italiana, non si commette reato se si scambiano immagini, testi e quant’altro per esaltare l’isolamento e la persecuzione di una persona. Ma l’Italia spesso è fatta così: ferocia e ipocrisia.
Meglio di niente, ma è questo Stato che non ci piace; uno Stato dei delitti e delle pene, mai dell’educazione. Il nostro Stato Sardo sarà diverso.
nel frattempo ecco cosa scrive Patrizia Macciocchi sul Sole 24 ore per speigare perché il bullismo è stato assimilato allo stalking: “Inutile negare anche l’esistenza degli elementi costitutivi del reato di stalking: il turbamento psicologico, lo stato di ansia e di paura e la modifica dei propri comportamenti. Sul punto dice molto la deposizione della persona offesa. Il minore aveva riferito di essere diventato succube della violenza: dopo un iniziale tentativo di ribellione, aveva accettato le prevaricazioni per evitare altre botte. E non importa che il ragazzo, malgrado il timore di ulteriori molestie, abbia continuato a frequentare la scuola. La circostanza va letta, al pari dell’assenza di iniziali denunce e di certificati medici, alla luce della soggezione psicologica e del finale abbandono dell’istituto teatro delle violenze. Esclusa anche la via d’uscita della prescrizione: per lo stalking il termine non decorre dalla fine delle violenze ma del danno o del pericolo e dunque quando la vittima riprende le sue abitudini e smette di temere per la sua incolumità”.