di Paolo Maninchedda
Lo scontro in atto con Anas mi ha consentito di ripercorrere interiormente le modalità del mio stare in Giunta.
Non è per niente semplice stare, da nominati e non da eletti, in un governo di coalizione.
Si deve sempre coordinare un delicato meccanismo composto dalle proprie convinzioni e dalle gerarchie di ruolo sancite dal popolo con le elezioni e dal patto elettorale sottoscritto.
Il problema si riduce a una difficoltà: come si può essere liberi essendo legalmente e legittimamente subordinati?
Non è solo un problema della Giunta; semmai è il problema di ogni organizzazione gerarchizzata.
I monaci e i frati ritengono di imparare nell’obbedienza la libertà. Non ho mai capito come, se non per un aspetto: è vero che stare dentro una struttura con differenti gradi di potere, come può essere quella che regola i rapporti dello Stato italiano con la Sardegna, e starci col potere minore, porta a rafforzare la propria disciplina, la propria capacità di far bene la propria parte e a meditare profondamente il dissenso anche senza esprimerlo, o esprimendolo quando è efficace farlo.
Questa palestra della disciplina quotidiana fornisce una grande forza interiore quando capita la circostanza in cui bisogna dire no: ci si sente a posto, si sta dritti, forti e sereni, come se la giustizia, provenendo da una grande fatica, trovi le parole e le forme più adatte ad esprimersi, proprio perché è profondamente vera. “Hombre vertical”, si diceva un tempo un po’ enfaticamente; più semplicemente si può dire uomo, ma pienamente.
Ho trovato molto interessante il tema generale della libertà nell’obbedienza. A momenti, riflettendovi sopra, può apparire un semplice paradosso; come quando, mutatis mutandis, si cerca di entrare e di rimanere nella visione di un autostereogramma (quelle immagini bidimensionali che senza l’ausilio di mezzi ottici possono farci accedere, opportunamente guardate, all’illusione di tridimensionalità).
Poi mia moglie, credente e spirituale, mi ha subito detto in proposito che negli ordini ecclesiastici l’obbedienza rende la libertà dal proprio ego.
Sotto questa luce è facile immaginare come al sottoposto nella gerarchia, che dopo averne ingoiate tante (verticale o uomo quanto si voglia) si presenti al superiore forte di un suo indirizzo contrario a quello impostogli, il superiore potrà sempre opporre l’argomento inappellabile: lui, il subordinato (che si insubordina), non è ancora sufficientemente libero dal proprio ego. Un parallelo con l’uomo politico, così, non sembra potersi porre, benché l’immagine da lei proposta resti lo stesso apprezzabile. Ingoiare rispettosamente rospi finché questo non ci renda forti e dritti sta, in fondo, tra l’ingoiare indefinitamente tutto, che sarà del perfetto monaco (e di Giobbe; avranno tolto il tappo allo scarico dell’ego, da cui allora tutto scorre senza mai espanderlo), e il non piegarsi mai a nulla che provenga da teste altre dalla propria (ognuna, come da copione, con la sua berritta).
Lei, quindi, si pone da qualche parte nel mezzo, con la sua misura: ogni politico, ogni uomo, avrà la propria. E sarà già tanto impegnarsi a conoscerla, cercare di agire consapevolmente, perseguire una ragionevole coerenza e, nei confronti delle persone con cui si sia impegnati, provare a spiegarsi con onestà (come lei mi sembra cerchi di fare).