di Paolo Maninchedda
Oggi un uomo pubblico sa che il suo telefono è una sorta di telefono pubblico, c’è poco da fare.
Non occorre essere perseguitati da alcun magistrato per essere intercettati: basta un esposto, una o più segnalazioni, una notizia sul giornale e/o una qualsiasi notitia criminis che obblighi la magistratura ad indagare.
Mettiamo nel conto che si sa tutto di tutti e ci si metta l’anima in pace.
Tuttavia ci sono aspetti che toccano i diritti fondamentali della persona che in Italia sono stati drammaticamente ignorati e ci sono aspetti culturali che vengono drammaticamente semplificati.
Ascoltare le conversazioni private di una persona è quanto di più delicato possa farsi. Si ascoltano dolori, preoccupazioni, discussioni tra genitori sui figli, si viene a conoscenza di debolezze, di fragilità, di malattie, si entra insomma dell’intimo di una persona laddove lo Stato, almeno in Occidente, non deve entrare. Eppure lo fa con la conseguenza dell’umiliazione pubblica dell’interessato, del dolore interiorizzato e non rimovibile, della vergogna per strada, spesso immotivata ma comunque dolorosamente attiva.
Leggere le parole usate su questo tema dal Procuratore della Repubblica di Roma Pignatone in una recente lucidissima lettera a Repubblica, mi ha aperto il cuore. Scorgere nell’impostazione culturale di un uomo dotato di così grande potere il pudore per l’intimità altrui e addirittura scoprire che nelle Procure d’Italia, in assenza di un’iniziativa del legislatore, ci si sta regolando per rendere significativo ai fini delle indagini solo ciò che realmente lo è, fa ben sperare sulla crescita della cultura giuridica della Repubblica Italiana e non si può che rallegrarsene almeno fino a quando non fonderemo la Repubblica di Sardegna con ben altra cultura giuridica. Il diritto non è la procedura persecutoria dello Stato; i latini dicevano che è scientia iusti ac iniusti. La giustizia ha il senso del proprio limite. Le Procure sembrano capire che la gogna mediatica derivata da atti giudiziari e successiva al loro deposito non aiuta la giustizia, consuma i vincoli civili, distrugge intimamente le persone. Bene, è un grande passo avanti, di cui però bisogna discutere di più e più nel dettaglio.
A Pignatone ha fatto eco un bellissimo intervento di Antonello Soro sul Messaggero. Antonello, da tempo e in drammatica solitudine, sta cercando di sensibilizzare il mondo politico italiano sull’incidenza della Rete sulla struttura delle libertà personali e sull’intacco che essa può determinare su sfere inviolabili della natura umana e del suo statuto civile. Una volta pubblicati in rete certi atti giudiziari, letti secondo una prospettiva giustizialista, divengono eterni, definitivi, sempre rinvenibili, incidenti sui profili pubblici ma anche curricolari delle persone. Il diritto all’oblio, soprattutto delle notizie private e/o false, non esiste; esiste il contrario, esiste la consegna definitiva della propria vita e delle proprie parole a una platea universale che giudica in base a ciò che le viene somministrato, in base a come viene alimentata la sua demoniaca sete di ferocia.
Sono temi che per noi indipendentisti che vogliamo fondare uno Stato su basi nuove hanno una grande valenza; essi riguardano il grande tema dei limiti del potere pubblico rispetto alle libertà individuali. Sono temi da riportare nelle aule universitarie; forse non fanno vincere concorsi con mediane, perpendicolari e parallelepipedi (chiedo scusa ai non addetti ai lavori, è solo un po’ di ironia sul lessico delle valutazioni universitarie), ma certamente costruiscono nuovi orizzonti di libertà.