di Mariano Meloni
Noam Chomsky, uno dei maggiori linguisti viventi, nei suoi scritti esplicita la strategia utilizzata per privatizzare i servizi pubblici: «Questa è la tecnica standard per la privatizzazione: togli i fondi, assicurati che le cose non funzionino, fai arrabbiare la gente, e lo consegnerai al capitale privato». Tale strategia può essere modificata, senza peraltro snaturarne l’idea base: togli i fondi, assicurati che le cose non funzionino, fai arrabbiare la gente, e potrai abolire l’ente pubblico.
Questo mi pare sia accaduto alle province italiane negli ultimi tempi e meno male che il referendum per la loro abolizione riguardava anche altri aspetti, sia costituzionali che politici, altrimenti sono convinto che l’applicazione di questa strategia sarebbe stata definitiva.
Da diversi anni le leggi di stabilità hanno dapprima tagliato i trasferimenti statali, poi piano piano hanno trattenuto le imposte proprie delle province (IPT e RC auto): la legge 190 del 2014 ha previsto il versamento nelle casse dello Stato del gettito riscosso di tali imposte per un miliardo nel 2015, il doppio e il triplo negli anni successivi. Peccato che per moltissime province non vi è sufficiente capienza per poter assolvere a questo taglio. Di cosa vivono allora le province? Di avanzi di amministrazione degli anni precedenti (in deroga alle norme contabili pubbliche) e di limitati trasferimenti regionali.
Tolti i fondi, non resta che assicurarsi che le cose non funzionino; in effetti così è, in mezza Italia su migliaia di chilometri di strade provinciali si viaggia a 30 km orari, le scuole superiori sono in condizioni pessime, non vengono garantiti i servizi agli studenti disabili e tanto altro.
A questo punto la gente si arrabbia e il gioco è fatto, ma hanno venduto la pelle dell’orso prima di averlo ucciso e le province non sono scomparse. Ora, nonostante l’esito del referendum, le cose sono rimaste invariate e le province sono in grave crisi finanziaria.
L’unica cosa positiva del referendum del 4 dicembre scorso è che ci ha costretto a rileggere la Costituzione e guarda un po’ al titolo V, l’articolo 119 comma 4 dispone «Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti (risorse autonome, tributi ed entrate proprie) consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite». Ma se quelle risorse le espropria lo Stato, è proprio lo Stato che non rispetta le regole stabilite dalla Costituzione, per cui c’è da chiedersi perché nessuno nel Parlamento italiano fino ad oggi abbia contestato e/o modificato questa normativa.
A dirla tutta, in questo momento di grande debolezza si possono concretizzare le migliori opportunità per far evolvere le province in enti intermedi, utili al sistema pubblico delle autonomie, sufficientemente snelli ma realmente efficaci nella loro azione. Il problema più difficile da risolvere è quello delle risorse.
Se la Regione può fare molto sulla natura degli enti, sulle funzioni e sui sistemi elettivi (come sta già facendo, configurandoli come enti di secondo livello, i cui organi di indirizzo e esecutivi sono eletti dai sindaci in carica) poco può fare, senza una grande riforma della finanza pubblica, sul versante delle risorse. Si realizzerebbe così ciò che ha previsto Chomsky: far fallire di fatto ciò che non si è riusciti a azzerare in diritto. Ma poniamo pure che alla fine le strade provinciali passino alle Regioni, gli edifici scolastici ai Comuni, si ritiene che comunque non sia necessario un ente intermedio di area vasta? In Sardegna non è possibile alcuna politica di coesione territoriale senza un ente intermedio dotato di certezza di risorse e non solo di ampiezza di funzioni, tanto più che le aree urbane, Cagliari e Sassari, proprio perché consapevoli di questa necessità, si sono già rafforzate con gli enti intermedi che li riguardano. Per l’area rurale della Sardegna, che si fa?
Come in tutte le storie dell’uomo non tutti i mali vengono per nuocere, questo è un momento propizio per fare un salto di qualità, spero che venga colta l’occasione nell’interesse della collettività e non per “torrare a su connottu”.