di Paolo Maninchedda
Mai nascoste le radici del sistema politico-culturale che cerco di tenere sempre a mente.
Sono sostanzialmente cinque: un’evoluzione personalissima del giusnaturalismo, il libertarismo, il socialismo democratico, la laicità dello Stato della tradizione liberale, il solidarismo cristiano.
Data questa premessa, non stupirà ciò che sto per dire.
Più studio i conti della Sardegna più mi convinco che la questione fiscale è strategica per il nostro futuro.
Le aliquote italiane sono incompatibili con ogni processo di accumulazione e riuso del capitale possibili in Sardegna.
Noi abbiamo bisogno di un periodo più o meno lungo nel quale chi produce lavoro e reddito paga meno tasse. Noi abbiamo bisogno di liberare le imprese da un appesantimento fiscale calibrato sul sistema economico del Nord Italia assolutamente diverso da quello sardo.
Scelte di questo tipo non avrebbero alcun effetto sui bilanci pubblici della Sardegna, visto che il gettito maggiore arriva da Irpef e Iva e dalle compartecipazioni a tributi prevalentemente indiretti e visto il fatto che già oggi la Sardegna è una sorta di zona franca dell’Irap.
Ma la riforma fiscale non basterebbe di per sé.
Noi abbiamo bisogno di un periodo di media durata di interventi pubblici in economia.
Lo Stato europeo con il più pesante intervento pubblico è la Germania che, sarà un caso, è lo stato europeo più in salute.
Nel contesto provinciale italiano, dai tempi di Prodi, il mantra è stato invece privatizzare, l’opposto del percorso tedesco.
Noi sardi sappiamo bene di non dover seguire esempi italiani, che pure abbiamo praticato (nelle miniere, nel tessile, nella finanza), di intervento pubblico in economia.
Ma è veramente stupido rinunciare a un’opzione positiva solo perché in passato è stata usata male.
Decidiamo di usarla meglio, ma usiamola.
La Sardegna ha bisogno di radicali e rapidi mutamenti.
Un cambiamento di sistema è impossibile affidandosi al laissez faire verso i mercati o semplicemente alle strategie di singole imprese private.
Faccio un esempio. La connessione indispensabile per noi tra il turismo, la valorizzazione del territorio e l’agroalimentare, non si può realizzare senza un grande piano di investimenti pubblici e di massicci interventi in economia.
Ancora: non è possibile trasformare l’isola in una grande destinazione per la qualità della vita, il benessere, i beni culturali e ambientali, e non orientare in modo radicalemente diverso il nostro sistema formativo.
Ancora: non è possibile rivoluzionare il sistema economico sardo senza accompagnare questo processo con misure di welfare che generino redditi per tutti gli espulsi dal sistema produttivo in fase di ristrutturazione.
Qual è l’orizzonte culturale di riferimento che meglio è in grado di interpretare sfide così grandi? A mio avviso è quello del socialismo riformista. Ma in Sardegna questa tradizione di pensiero – cui si deve, per esempio, il grande investimento sul CRS4, da cui poi sono nate Video on line e Tiscali ecc. ecc. – non è riconosciuta come di valore strategico nazionale, a differenza dell’autonomismo burocratico che è proprio ciò che ancora oggi consuma ricchezza senza produrne.
C’è un luogo dove si possa discutere di questi grandi temi?