È difficile capire e descrivere la massoneria italiana e sarda da un punto di vista esterno e cristiano come il mio.
Ma capisco, per ciò che leggo e ho letto, che l’errore più grande della vulgata politica è sempre stato parlare di ‘Massoneria’ al singolare.
Dopo il caso Moro, dopo la P2, dopo l’omicidio Pecorelli, dopo lo scontro Andreotti-Cossiga su Gladio, dopo i migliori lavori sulle antiche origini dei riti di affiliazione alla ‘ndrangheta, dopo il bel libro del procuratore Nino Di Matteo Collusi, chi ha avuto la pazienza e il tempo di cercare di capire questi e altri fatti e di leggere questi e altri libri, sa perfettamente che in Italia ci sono più massonerie che squadre di calcio di terza categoria. La Sardegna non fa eccezione.
Ci sono massonerie diverse e massoni diversi.
Dividiamoli almeno in due categorie.
Ci sono i massoni di ancien régime, un misto tra il teismo di Einstein, il metafisicismo politico di Mazzini, l’aristocraticismo religioso della più nota vittima della Chiesa Cattolica, Giordano Bruno (una religione di facili miti per tenere a bada il popolo, una religione del sapere dell’universo per i sapienti), l’azionismo anticlericale di Garibaldi ecc. ecc.; ma questi massoni sono pochissimi e né si espongono né si nascondono. Ha parlato di loro negli anni scorsi ripetutamente e in un bel libro Gianfranco Murtas e recentemente il volume a più mani Massoneria e cultura laica in Sardegna, a cura di Fulvio Conti (2014), che non a caso si ferma a Armandino Corona e la P2. Questa massoneria di vecchia osservanza è fatta da persone anziane o comunque adulte; è ormai marginalizzata, laterale, infastidita dalla mediocrità dilagante ma non disposta a reagire perché non ne ha più la motivazione. Sono i custodi immobili della tradizione che coincide con la loro giovinezza.
A prevalere invece è la massoneria (divisa in mille parrocchie, parrocchiette, pievi, canonicati e benefici) che teorizza e pratica la sostituzione del diritto con il sistema di relazioni. È la massoneria della carriera e del potere, marcia fino al midollo nei contenuti, ma capace di impadronirsi dei meccanismi che rendono formalmente legittimo il successo dei suoi aderenti. È il simmetrico grigioscuro dell’elitismo carrierista e clientelare di sinistra, ben descritto da Sergio Atzeni (che lo aveva subìto) ne Il quinto passo è l’addio.
Per ragioni di lavoro ho dovuto leggermi tutti i numeri del giornale di Mino Pecorelli precedenti e seguenti la morte di Aldo Moro. Ben prima della sospensione della loggia da parte del Grande Oriente d’Italia (luglio 1976), il giornalista più prossimo ai servizi segreti italiani che mai sia esistito, aveva raccontato la P2, cui era stato iscritto, come un luogo che sostituiva il proprio sistema di relazioni alle regole del diritto e della democrazia.
Il modello, allora come oggi, è sempre quello. Azzeccando la pieve giusta (perché se si finisce in una parrocchietta si può ambire a fare i chierichetti, non i cardinali), si può essere un chirurgo che sa fare solo vene varicose ma divenire il primario di un reparto che magari fa oncologia avanzatissima, dove magari c’è un bravissimo chirurgo che saprebbe fare benissimo il primario e che, umiliato dal concorso farlocco, inevitabilmente si trasferisce in qualche ospedale della penisola che è ben felice di prenderselo.
Oppure si può arrivare a guidare articolazioni importanti del sistema amministrativo o formativo dello Stato e costruire percorsi innaturali e amministrativamente arditi ma riservati ed esclusivi. In nessuna parte del mondo si certifica con dieci anni di ritardo qualunque cosa abbia valore amministrativo avvenuta dieci anni prima, ma in un sistema di relazioni compassate può accadere. Oppure può accadere che tutti i cittadini che rivestono una determinata carica siano obbligati a rendere pubblici alcuni documenti, e vi sia invece chi ne è esentato non per legge, ma per relazione e prassi. Di Matteo, in Collusi, dimostra come si smontano queste zone franche di impunità.
Ma il problema non sono questi massoni; sono sempre esistiti. Il problema è dato dalla stampa e dai media che li coprono, che non fanno domande e che quando le fanno, si fanno dare risposte senza senso e le condonano. C’era un tempo una generazione di giornalisti in Sardegna, che di giorno combatteva le tre celebri M (Massoneria, Medici, Mattone) e di sera ci cenava insieme. Era la generazione del Sessantotto che voleva una rivoluzione da fare non col sacrificio, ma a colpi di salotto. Era gente alla Feltrinelli non esplosivo, più freakettoni. Tuttavia, erano giornalisti che comunque riuscivano a dire qualcosa se non tutto (secondo l’augusta lezione di Cossiga). Oggi è imbarazzante assistere alla censura autoimposta, al silenzio, alla piaggeria, alla sciatteria dei testi di agenzia riprodotti senza capirne l’importanza, alla poca voglia di approfondire, alla tanta voglia di esserci comunque. Verso questo sistema di sorrisi, ammiccamenti e silenzi la risposta non è la scorciatoia della rivoluzione, ma l’austerità dell’eremita, la libertà individuale, l’insegnamento di una cultura della fatica, dell’impegno e della dignità.