Il Pd si è indignato perché la Digos a Modena ha semplicemente presenziato a una sua conferenza stampa.
Personalmente non ricordo un solo evento promosso dal Partito dei Sardi in tutti i paesi e le città della Sardegna cui non abbia presenziato la Digos.
È un problema antico di una certa sinistra italiana: l’autocertificazione di moralità, legalità e di perfetta identificazione con lo Stato. Un agente Digos andrebbe mai a osservare il comportamento di un prefetto o di un questore, cioè di parti dello Stato? No, argomentano molti (non tutti) i dirigenti Pd. E siccome il Pd si considera lo Stato, non può accettare che la Digos vada oggi dal Pd come andava ieri a osservare le riunioni del Partito dei Sardi.
Qui sta un problema enorme di certa sinistra italiana: il non avere consapevolezza del proprio settarismo morale, quello che la induce a dire oggi peste e corna dell’attuale assessore al Turismo della Regione Sarda perché a loro contrapposto, dopo averlo omaggiato, riverito e premiato nel 2016 quando serviva al Pd per vincere le elezioni a Cagliari.
Noi, cioè tutti quelli che non comprano il pensiero al supermarket della politica e che ne abbiamo uno distante e orgogliosamente autonomo dai conformismi ideologici della Destra e della Sinistra italiana, siamo sempre stati ascoltati dalla Digos.
Alcuni anche osservati molto da vicino dalla Polizia Giudiziaria.
Abbiamo difeso e difendiamo la necessità di affermare una giustizia realmente giusta; affermiamo e difendiamo il diritto a non essere spiati in attesa che si commetta un errore; ma non ci facciamo né cerchiamo sconti.
Il Pd, invece, quel Pd dall’indignazione facile che non si accorge che ormai le periferie urbane sono o a Sinistra della Sinistra parlamentare o a Destra della Destra parlamentare, pretende di essere esente da ogni controllo, anche da quello banale di essere ascoltati, cui tutte le forze politiche sono sottoposte da sempre, e lo pretende perché si sente lo Stato. È l’effetto del ceto politico che si interpreta come impiegato delle istituzioni. Un disastro con antiche origini. Cambiamo argomento e aumentiamo il dolore.
Vorrei dialogare di scienza e di fatica col Rettore di Sassari Carpinelli.
Vorrei farlo non su base matematica, ma umana e morale. Prendiamo le biografie dei grandi uomini di scienza (di cui mi appassiono). Prendiamo uno come Heinrich Rudolf Hertz, lo scopritore delle onde elettromagnetiche teorizzate da Maxwell. Ebbene, questo grande della fisica è morto a 37 anni. Non ha avuto tempo. Divenne ordinario, diremmo noi della Repubblica italiana, a soli 28 anni. Non ebbe alcun interesse commerciale, al punto che pensò che la sua scoperta fosse solo una dimostrazione di una teoria e nient’altro. Niente di utile. Guglielmo Marconi lesse dell’esperimento di Hertz all’età di 21 anni e immaginò che se si fosse stati capaci di aumentare e controllare la forza di quelle onde, si sarebbe potuto “lanciare segnali attraverso lo spazio”. Marconi a 21 anni era già capace di immaginare ciò che ha trasformato l’umanità delle relazioni nell’umanità delle comunicazioni.
Hertz era ebreo, come tanti scienziati e letterati cui dobbiamo moltissimo e che personalmente amo. I filologi hanno, per esempio, ben presenti i debiti accumulati dalla cultura italiana verso gli ebrei cacciati dalle cattedre con le leggi razziali del 1938; alcuni tornarono, altri non ebbero il tempo di farlo, altri ancora trovarono il posto vilmente occupato da presunti innocenti. Voglio dirLe, magnifico Rettore, che trascorrere la vita a capire, significa anche dare valore al tempo e alla fatica, ai momenti in cui il cuore intuisce e la mente non lo segue e scoppia. Se dunque c’è una cosa che uno studioso non può fare, e non vorrebbe che sia fatto da alcuno, è insegnare che faticare per non sprecare il tempo sia stupido. Peggio ancora, non vi è alcuno studioso che possa accettare che il potere, esercitato a tutti i livelli, non dia spiegazioni, non renda sempre verificabile il suo operato.
Le pongo un problema di logica: come fa un’istituzione a certificare l’avvenuta frequenza di alcune lezioni dieci anni dopo il loro svolgimento? Può spiegarmi come mai, ai tempi ormai consolidati della dematerializzazione delle procedure amministrative, mentre gli esami sostenuti, per esempio, nel novembre del 2014 vengono puntualmente registrati entro i 15 giorni successivi, accade invece che, magari nella stessa data in cui si certificano le frequenze dei dieci anni precedenti, si registrino esami che si dichiarano sostenuti più di un anno prima? Vorrei chiarirLe che io mi sono ritirato totalmente dalla politica attiva, quella che ha l’obbligo morale e pratico di convincere la gente; ma sento il dovere morale di difendere chi fatica, chi lavora, chi arranca, chi si smazza la vita. Non si tratta qui di discutere della disponibilità a favorire lo studio e la disciplina di chi lavora e studia contemporaneamente. Ho grandissimo rispetto di tutti i docenti che vanno incontro agli studenti lavoratori; credo sia un nostro dovere verso chiunque mostri una briciola di curiosità di capire il mondo e abbia poco tempo per farlo.
Qui si tratta di altro.
Si tratta di discutere tra noi, tra accademici, se siano giuste le scorciatoie della storia.
Ci sono due tragiche scorciatoie consolidate: la furbizia e le rivoluzioni. Spesso la prima ha generato la rabbia che ha alimentato le seconde. Detto questo, ci sta pure che esistano o siano state varate procedure straordinarie e che si riesca anche a motivarle, ma è grave pensare di non doversi spiegare quando si costruiscono percorsi straordinari, quando si è unici in Italia a rendere impraticabili ampi settori che la legge ha stabilito siano aggiornati, aperti e accessibili. Ciò che dunque non è tollerabile è la cortina fumogena, è la nebbia sulle procedure amministrative, sui dati dichiarati pubblici dalla legge. Questo è contrario al mondo della conoscenza e della cultura, appartiene ad altri mondi, tragici, spesso violenti nella storia, sempre protetti e sempre tardivamente rivelati. Vorrei significarle, per reciproca conoscenza, che mi commuove ancora oggi pensare a gente come Falcone e Borsellino, come Livatino, come Attilio Momigliano che espulso dall’Università si rifugiò nei paesini italiani, con una moglie inferma ricoverata ora qui ora là e con la paura che da un momento all’altro uno stivale aprisse la porta e sequestrasse il suo tempo e la sua vita. Ho da sempre una vocazione personale al riconoscermi con queste grandi e umili figure non di perfezione, ma di grande umanità, che hanno perso tutto per dare tutto. Quando sono stanco, penso a loro e ritrovo forza. Sbagliano coloro che ritengono che il silenzio produca stanchezza e isolamento. I monaci insegnavano e insegnano l’arte del silenzio e dell’ascolto per forgiare non uomini arrendevoli, ma uomini così forti da sapere in primo luogo affrontare i propri mostri interiori. Si ricordi, Magnifico, che se Pilato chiedeva cosa fosse la verità, un Altro diceva che essa rende liberi, anche se costa, talvolta troppo.