di Paolo Maninchedda
Alberto Mingardi è l’accademico-giornalista che nel 2004 mandò in bestia Berlusconi per il ritratto che fece sul Wall Street Journal della politica economica italiana.
Si definisce un liberale-libertario.
Ieri ha pubblicato una recensione sul Sole 24 ore di un libro appena uscito (Democracy and Political Ignorance: Why Smaller Government is Smarter = Democrazia e ignoranza politica: perché un governo elitario è un governo più capace). L’autore del libro è Ilya Somin, un collega di Mingardi al Cato Institute di Washington, un think-thank del liberalismo americano, quindi dobbiamo tenere conto che si tratta diuna recensione fatta da un collega al libro di un collega (insomma, una cortesia).
Ciò che qui ci interessa è il concetto, carissimo al liberalismo classico, dell’opportunità che il potere di eleggere e di governare sia riservato a chi ha reale competenza politica. Nell’Ottocento, il misuratore della competenza politica erano il censo e il rango. Ma è poi necessario essere competenti per votare? Mingardi ricorda che gli inglesi non votarono Churchill che li salvò da Hitler e che invece gli Argentini hanno votato due volte la Kirchner che propriamente ha confermato i vizi dell’Argentina piuttosto che curarli. Gli Italiani hanno la classe dirigente che si meritano. Conseguenza? Tutti noi pensiamo che il voto sia un dovere dell’elettore, ma vi sono autorevoli pensatori conservatori che pensano che il dovere principale di un elettore disinformato dovrebbe essere quello di astenersi dal voto in modo da far emergere dalle elezioni un voto di qualità per persone di qualità.
Scrive Mingardi: «Gli elettori hanno scarsi incentivi ad acquisire conoscenza politica allo scopo di prendere migliori decisioni elettorali», spiega Somin. Inoltre «essi hanno l’incentivo ad essere irrazionali nel modo in cui analizzano le informazioni acquisite». La politica somiglia molto alla prosecuzione del calcio con altri mezzi: ci si divide per appartenenze, si eredita il partito come la squadra del cuore. Non è possibile fare gol, determinare direttamente l’esito della sfida: quello sta ai ventidue che sono in campo. Ma ci si può sgolare in curva, dare la colpa all’arbitro, sviluppare ogni sorta di teoria sull’indegnità morale dell’avversario. Secondo numerose ricerche, le persone più politicamente informate sono proprio quelle più “tifose”. Ed esattamente come gli ultrà non mettono ciò che apprendono al servizio di un giudizio razionale e freddo, lo usano invece per confermare le proprie antipatie. Gli elettori “che si spostano” paiono essere invece i meno informati: nel loro scegliere “al di là delle ideologie” c’è più superficialità (l’improvvisa simpatia per un leader) che attenta meditazione sulle alternative disponibili”.
Non sfugga a nessuno che dietro tutto questo ragionamento c’è un principio fondamentale del pensiero liberale della Destra europea: non siamo tutti uguali e pertanto non dobbiamo poter accedere tutti alle alte funzioni del governo. Per governare occorrerebbe una selezione, cioè una capacità dimostrata di produrre ricchezza, cultura, sapere, competenza, insomma occorrerebbe dimostrare di appartenere all’aristocrazia che è naturalemente, per ingegno e fortuna, candidata a governare. Un’aristocrazia non di sangue, ma di ingegno.
Ora, se tutto questo argomentare venisse svolto con la sfrontatezza e la genialità di un Nietzsche o con la profonda ostilità illuminista verso la democrazia diretta e ogni forma di egualitarismo di un Sartori, verrebbe veramente voglia di metterci la testa per confutarne il presupposto calvinista, ossia il presupposto che un uomo possa essere puramente ed essenzialmente la sua competenza e non tante altre cose, altrettanto umane, nel bene e nel male. L’idea dell’aristocrazia dell’ingegno al potere è un’idea elitaria che riflette l’idea di Calvino della Ginevra intesa come Repubblica dei Santi. L’eugenetica del potere finisce sempre nell’intolleranza, nell’arroccamento, insomma fa più errori del disordine delle democrazie rappresentative. Invece, dove vanno a finire Mingardi e Somin? Nella vecchia idea della riduzione dell’errore politico attraverso il federalismo, ossia la riduzione (o adeguatezza) del potere alle dimensioni del mandato che riceve. Più grande è lo Stato, maggiore sarebbe l’incidenza dell’ignoranza; più piccolo è lo Stato, minore sarebbe l’incidenza dell’errore. E la Panama di Noriega? E i dittatori africani? Ecco, qui sta il punto: di politica non si può ragionare a partire da modelli (come fanno e hanno fatto in tanti), ma solo partendo dal discorso storico (che necessita di modellizzazioni ma non di stupide rigidità). In molti non hanno capito perché Gramsci leggesse Machiavelli.